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"Sono cose che capitano...". Quando la violenza di genere fa male due volte

In occasione della Giornata contro la violenza sulle donne pubblichiamo il racconto di una aggressione che fa male due volte: nel fatto in sé e nella risposta delle istituzioni al tentativo di denuncia. "Non siete diversi dagli aggressori, dai molestatori, dai violenti, dagli oppressori. Siete solo meno visibili e più insospettabili, l’altra faccia del patriarcato, quella più subdola e meschina. Ma stiamo imparando a riconoscervi, e non ci fate paura".

3 anni fa, Novembre, Roma. Camminavo in Via Battistini alle 6 del mattino per raggiungere la metro. Iniziavo un nuovo lavoro, ero entusiasta, emozionata e curiosa.
Incrocio un uomo che fa jogging, non vi faccio quasi caso. 

Dopo pochi secondi, quell’uomo è alle mie spalle. Mi blocca. Mi trattiene. Mi tocca. Sento le sue mani e il suo fiato su di me. Pochi secondi durati un’eternità. Le mie gambe sono di pietra. Il mio respiro e la mia voce si fermano, nell’orrore. 
Le braccia e le mani rispondono agli impulsi del cervello, tentando di divincolarsi. L’uomo molla la presa, riprende a correre superandomi.

La voce torna. Urlo, lo insulto, impreco contro di lui. “Cosa mi hai fatto, bastardo?!”. L’uomo si ferma, si gira, mi guarda. In quello sguardo che mai dimenticherò vedo il ghigno beffardo e sprezzante di chi pensa di poterti annientare. Di chi pensa sia legittimo aggredirti perché sei una donna che cammina sola in una strada deserta. Di chi non ha nemmeno bisogno di pronunciare parole come “Cosa pensi di potermi fare?”, perché bastano quello sguardo e quel ghigno.

Finalmente anche le gambe rispondono, si staccano da terra - pesanti come macigni - e mi portano via. 

Pochi giorni dopo, un sabato mattina assolato di Novembre, di quelli che solo Roma sa regalare, mi decido a denunciare l’accaduto. So di essere stata fortunata, quell’uomo si è “limitato” ad aggredirmi, non ho subito alcuna violenza fisica, ma da quel giorno percorrere la via che porta dalla metro a casa è un inferno. Se è già buio chiamo mio fratello e restiamo al telefono il tempo di raggiungere casa, se accidentalmente il telefono è scarico cammino furiosamente più veloce che posso, guardandomi di tanto in tanto le spalle, con il cuore a mille. Fino a quel momento non avevo mai provato nulla di simile. Nelle stradine buie e malmesse delle slum di Nairobi, nei parcheggi deserti fuori dai locali di Addis Abeba MAI mi ero sentita in pericolo. Muovermi da sola, la sera, non aveva mai costituito un problema. Fino a quel momento.

Quel sabato mattina il Commissariato è deserto. “Bene – penso - troverò qualcuno che ha il tempo per ascoltarmi”. Dalla finestra della reception che dà sul cortile dove stavo attendendo si affaccia il funzionario di guardia. Spiego brevemente l’accaduto manifestando la volontà di sporgere denuncia.
Quella che segue è la conversazione più surreale che mi sia mai capitato di dover affrontare. In sintesi – poiché mi è difficile replicare le testuali parole pronunciate in mezzo romanesco da quel funzionario tanto distratto quanto evidentemente disinteressato alla mia vicenda - mi viene detto che: 
1. Sporgere denuncia non sapendo descrivere perfettamente l’aggressore risulterebbe alquanto inutile, il mondo è pieno di denunce contro ignoti che cadono nel nulla; 
2. In ogni caso non è che per una aggressione senza l’uso di violenza (“ma che j’ha fatto der male? C’ha dei segni de violenza?” mi chiedeva pochi istanti prima, con tatto e delicatezza, il funzionario) il Commissariato può mandare in giro volanti a cercare un “ignoto”; 
3. Sono cose che “purtroppo capitano, siggnnorì’”.

Sangue alla testa, lacrime di rabbia a riempire gli occhi. Le trattengo, mi schiarisco la voce, provo a spiegare meglio le mie ragioni: 
1. Denunciare è un mio diritto; 
2. Certamente non mi aspetto che il Commissariato si mobiliti in una caccia all’uomo, ma non si può ignorare il fatto che nel quartiere giri un aggressore; 
3. Nel mio caso non c’è stata alcuna violenza fisica, ma chi ci dice che non possa succedere di peggio con altre donne? E se un’aggressione del genere fosse rivolta a una ragazzina? Quali impatto e danni potrebbe generare? Chi stabilisce qual’ è il livello di violenza per cui CI È CONCESSO sporgere denuncia?

Sono certa di AVERLO CONVINTO, o quantomeno di averlo svegliato dal suo torpore. “Ora mi fa entrare e potrò far denuncia” - penso.
Invece, per nulla scalfito dalle mie motivazioni, il funzionario mi porge un foglio ciclostilato polveroso e mi spiega che se proprio avessi avuto intenzione di sporgere denuncia avrei dovuto compilare quel foglio in triplice copia con le mie generalità e la descrizione di quanto accaduto e riportarlo firmato in Commissariato.

Esausta, in preda allo sconforto e al disgusto torno a casa. Quel foglio non lo compilerò mai. Quella denuncia non verrà mai formalmente depositata.

Sono stata convinta io, del fatto che in fin dei conti quella denuncia fosse irrilevante e inutile, del fatto che tutto sommato non mi era successo nulla di grave e che avessi poco di cui lamentarmi, del fatto che “il mondo gira così, cosa possiamo farci?”.

Roma l’ho lasciata dopo alcuni mesi, questa storia è ricomparsa nei pensieri di tanto in tanto a tormentarmi e a ricordarmi del poco coraggio che ho avuto. Oggi per la prima volta la scrivo, nella Giornata contro la violenza sulle donne, dolorosamente segnata dagli ennesimi casi di femminicidio.

La scrivo ed è questa la mia denuncia, CONTRO LA VIOLENZA ISTITUZIONALE che si annida nei luoghi deputati alla nostra tutela, nelle menti di coloro che nello svolgimento del proprio dovere si ergono a giudici dei nostri corpi e del nostro dolore, silenziando le nostre voci, disinnescando i nostri diritti. 

Non siete diversi dagli aggressori, dai molestatori, dai violenti, dagli oppressori. Siete solo meno visibili e più insospettabili, l’altra faccia del patriarcato, quella più subdola e meschina.

Ma stiamo imparando a riconoscervi, e non ci fate paura.

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