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Cristo si è fermato a Lesbo: shame on you Europe, vergognati Europa

Ripubblichiamo con piacere un testo scritto da Paolo Scarpa e pubblicato su ITALIA LIBERA nei giorni scorsi. 

Pubblichiamo con piacere un testo scritto da Paolo Scarpa e pubblicato su ITALIA LIBERA nei giorni scorsi. 

Cristo si è fermato a Lesbo: shame on you Europe, vergognati Europa
Campo di Moira
Lo chiamano il cimitero dei giubbotti, una discarica in cui vengono buttati a mucchi i salvagente che le persone hanno indossato per la traversata. È una montagna di migliaia e migliaia di salvagente arancioni e ognuno parla di una vita, di un viaggio, di una speranza. Il campo è una baraccopoli attrezzata per 2.500 posti, ma la popolazione di Moria è arrivata oltre le 12.000 unità. Persone, non numeri: un servizio igienico ogni ottanta/cento persone, scarichi costantemente intasati, pulizia improbabile. E l’Europa mostra il suo volto quasi unicamente attraverso le divise dei militari di Frontex, per un servizio di sorveglianza che sembra avere nel mirino soprattutto le associazioni umanitarie

Dove finisce l’Europa? Quali sono i suoi confini morali? Mi viene spontanea questa domanda quando ascolto la notizia dell’inizio del trasferimento di migliaia di persone al nuovo campo rifugiati di Moria nell’isola di Lesbo, dopo che il famigerato primo campo era stato distrutto mesi fa da un incendio e due campi più piccoli, che avevano accolto alcune famiglie, sono stati chiusi dalle autorità greche, nonostante vi si fosse creata una condizione di vita miracolosamente accettabile. Una decisione che l’associazione Medici senza frontiere ha definito crudele, una deportazione forzata di famiglie, bambini, anziani.

Sono stato a Lesbo due anni fa, a trovare mio figlio, impegnato in una delle associazioni che cercano di rendere meno disumano il passaggio in Europa delle persone che arrivano qui attraverso un piccolo braccio di mare di otto chilometri che separa l’isola dalla costa della Turchia. Si tratta di una traversata più sicura di quella tra Libia e Sicilia, ma che rappresenta solo l’ultima tappa di un’odissea iniziata da paesi in guerra come Afghanistan, Siria, con tragitti impossibili, durati mesi, anni, cercando di stare alla larga dalle guerre nel Kurdistan, da quelle dei fondamentalisti, di Assad, allungando di centinaia di chilometri un viaggio che, una volta in Turchia, si blocca per periodi indefiniti, in attesa che Erdogan decida quando e in che misura riaprire le coste o i confini terrestri, usando i rifugiati come arma di ricatto verso l’Europa.

Sapevo poco di Lesbo, prima di andarci. I giornali, soprattutto quelli italiani, ne parlano raramente: fiammate di informazioni quando accade qualcosa, ma poi tutto ricade nel dimenticatoio. Quella specie di alieno che è papa Francesco c’era stato, nel 2016, richiamando l’attenzione del mondo per alcune ore. Era andato proprio al campo di Moria, in mezzo ai disperati, con la sua veste bianca in quell’inferno legalizzato, gestito dalle forze militari e di polizia greche. Una volta partito il papa, esaurita la scossa mediatica, il sistema dell’informazione si è eclissato, salvo poche eccezioni. Moria è un villaggio sopra Mitilene, la capitale: una chiesetta, poche case contadine, una taverna sgarrupata con i tavoli per il backgammon, una strada stretta che lo attraversa in mezzo a colline coltivate a ulivo: avrebbe prolungato volentieri il proprio tranquillo anonimato, non fosse per quel campo militare dell’esercito greco, di stanza sull’isola, per la difesa dall’eterna minaccia turca.

Circa sette anni fa, con l’escalation della guerra in Siria, è iniziata l’onda d’urto dell’esodo, sulle coste di Lesbo sono approdate migliaia di richiedenti asilo e in pochi mesi l’isola si è trovata a dovere gestire un’emergenza umanitaria senza precedenti. La logistica è stata demandata all’esercito greco, che ha utilizzato il proprio campo militare. Il campo è una baraccopoli attrezzata per 2.500 persone, ma in pochi mesi la popolazione di Moria è arrivata oltre quota 12.000 unità, ammassate all’inverosimile. Persone, non numeri. In poco tempo, le condizioni dentro il campo sono diventate insostenibili. Per dare un’idea: un servizio igienico ogni ottanta/cento persone, scarichi costantemente intasati, pulizia improbabile, e poi scarsa protezione dal freddo e dalla pioggia (in inverno a Lesbo la temperatura arriva anche sotto lo zero), impianti di illuminazione precari, brande ammucchiate in baracche sovraffollate affiancate da una tendopoli infinita, assediata dai rifiuti. E una condizione di promiscuità in cui bambini, giovani donne, anziani, famiglie si trovano a condividere spazi minimi con persone di etnie, abitudini, lingue, religioni totalmente diversi. 

Campo di lesbo
Non si sa come si sia sviluppato l’incendio che ha distrutto il campo a settembre: i responsabili sono ignoti, anche se le autorità greche hanno deciso di punire tutti, ritenendo che vi sia una sorta di responsabilità collettiva, impedendo quindi il trasferimento verso il continente di chiunque si trovasse nel campo, per avviare invece subito la costruzione di un Moria2. Possiamo solo immaginare il cumulo di disperazione, rabbia, e le infinite paure, a cui, da un anno, si è aggiunta anche quella della pandemia. Gli “ospiti” di questo hotspot (termine più elegante di altri), sanno che possono rimanervi anche anni, nell’attesa che si compia la trafila burocratica per il riconoscimento di status di rifugiati, che può durare tempi infiniti, ma è condizione necessaria per lasciare l’isola. Un giovane medico italiano che opera nel pronto soccorso del campo mi disse che erano sempre più diffuse forme di depressione profonda, anche tra i bambini. Un lager di fatto, gestito da un paese democratico, la Grecia, la quale reclama come scusante, il fatto di essere trascurata dall’Europa.

E l’Europa mostra il suo volto a Lesbo quasi unicamente attraverso le divise dei militari di Frontex, che svolgono un servizio di sorveglianza che sembra avere nel mirino soprattutto le associazioni umanitarie, i cui membri vivono nella paura costante di provvedimenti cautelari. Avevo notato che, se in una taverna affollata entra un gruppo di militari, la conversazione dei ragazzi delle varie organizzazioni si ferma all’improvviso, si parla sottovoce, segno di un clima di censura, di timore, che ha un acro sapore di fascismo. I più temuti sono i militari croati. Anche la Croazia è Europa. La stessa Croazia censurata da Amnesty International per i comportamenti disumani verso i migranti che dal confine con la Bosnia cercano di penetrare verso il sogno europeo e, se riescono a bucare il confine, vengono picchiati, umiliati, privati persino delle scarpe, anche quando c’è la neve, e ricacciati indietro.




C’è un luogo a Lesbo che parla come pochi di questa miseria umana, lo chiamano il cimitero dei giubbotti, una discarica in cui vengono buttati a mucchi i salvagente che le persone hanno indossato per la traversata. È una montagna di migliaia e migliaia di giubbotti arancioni e ognuno parla di una vita, di un viaggio, di una speranza. I salvagenti sono un bene necessario, anche in quei pochi chilometri di mare, per persone che in buona parte non sanno nuotare, avendo magari vissuto nelle montagne dell’Afghanistan, o della Siria, senza mai avere visto il mare. Mio figlio mi dice che sono salvagenti farlocchi, che non salverebbero nessuno in caso di necessità, anche se si sa che sono venduti a prezzi folli, estremo imbroglio a gente vessata da tutti e tutto. 

Il cimitero dei giubbotti copre una piccola valle, nel centro dell’isola, protetta a monte da un alto muro di cemento armato che la sovrasta, su cui qualcuno ha scritto a lettere cubitali shame on you Europe, vergognati Europa. 

 

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