20 anni di Bossi-Fini. “Ha introdotto lo Sprar tra promesse e tanti limiti”
Pubblichiamo un articolo di Filippo Miraglia, responsabile settore immigrazione di Arci, pubblicato nei giorni scorsi da Redattore Sociale sui vent'anni dall'approvazione della legge Bossi-Fini. Come Ciac condividiamo pienamente la necessità di una riforma immediata del sistema di accoglienza, seguendo le proposte già portate avanti da diverse associazioni tra cui la nostra.
rassegna stampa
Pubblichiamo un articolo di Filippo Miraglia, responsabile settore immigrazione di Arci, pubblicato nei giorni scorsi da Redattore Sociale sui vent'anni dall'approvazione della legge Bossi-Fini. Come Ciac condividiamo pienamente la necessità di una riforma immediata del sistema di accoglienza, seguendo le proposte già portate avanti da diverse associazioni tra cui la nostra.
di Filippo Miraglia
Venti anni di Bossi Fini passati inspiegabilmente senza che nessuno dei governi di centro sinistra succedutisi abbia mai provato davvero, ed esplicitamente, a cancellarne gli effetti peggiori sulla vita delle persone e sulla gestione dell’immigrazione. L’obiettivo dichiarato dell’allora centro destra, a trazione berlusconiana, che aveva delegato a Bossi e Fini, quindi a quella parte di coalizione più dichiaratamente xenofoba, la riduzione drastica dello spazio dei diritti per le persone straniere, era di rendere più incerta e precaria la vita in Italia ai lavoratori e alle lavoratrici immigrate, legandola in maniera patologica al lavoro. Persone poco gradite in pratica, che non potevano pretendere di costruire il loro futuro nel nostro Paese che, quindi, li considerava ospiti temporanei e non cittadini. Una componente sostanziale di quell’intervento aveva, come gli altri che si sarebbero succeduti in questo ventennio, l’allargamento dello spazio del razzismo e quindi la costruzione del consenso elettorale intorno all’identificazione dello straniero come nemico: meno diritti hanno gli immigrati, meglio staranno gli italiani. Questa l’operazione politico culturale al centro di quel provvedimento legislativo.
Ma c’erano, e sussistono ancora, pesanti elementi concreti di precarizzazione della vita delle famiglie di origine straniera che ne hanno determinato in questi anni una progressiva distanza dalla pubblica amministrazione e dalle istituzioni, sostenuta anche da una grande discrezionalità nella definizione del rapporto tra Stato e stranieri.
L’unica eccezione, del tutto casuale, di quell’articolato è rappresentata dall’art.32 della 189/2002 che introduce formalmente il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR), dopo un periodo di sperimentazione realizzato in alcuni comuni attraverso il Programma Nazionale Asilo (PNA). Lo SPRAR è sostenuto dal Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’Asilo, cui provvede il Ministro dell’Interno con un proprio Decreto annuale e che, all’inizio, copriva l’80% delle spese dei progetti d’accoglienza, a cui quindi dovevano contribuire in quota parte gli enti locali che chiedevano di accedere al Fondo per coprire le spese d’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati.
Quella riforma, derivante da un obbligo definito nel Regolamento Dublino, le cui norme sono contenute nella cosiddetta “Direttiva Accoglienza” (la versione oggi in vigore è la n.33/2013), anche se nei limiti della volontarietà degli enti locali e delle risorse annualmente stabilite per Decreto dal Viminale, affida ai comuni quello che sembra poter diventare l’unico sistema d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, la cui gestione unitaria è affidata all’ANCI attraverso l’istituzione del Servizio Centrale.
Una promessa che negli anni ha mostrato progressivamente molti limiti, consentendo purtroppo lo sviluppo di un sistema straordinario affidato alle prefetture, quello dei CAS introdotto nel 2011, che da allora ha sempre rappresentato la risposta principale dello Stato, alimentando un’idea sbagliata e negativa dell’accoglienza. I CAS sono infatti spesso gestiti da enti e organizzazioni senza esperienza e competenze (che dopo alcuni anni certamente si presentano come competenti, ma che non hanno alcun interesse e alcun legame con chi promuove e tutela i diritti dei rifugiati), che si inseriscono in quello che considerano un pezzo del mercato dei servizi sociali, grazie a gare delle prefetture fatte inizialmente con condizioni di accesso molto semplici e che nel tempo hanno determinato un rapporto negativo con il territorio. A differenza degli SPRAR infatti, i CAS non prevedono alcun obbligo di coinvolgimento del territorio e degli enti locali e quindi l’impatto che determinano sia sui servizi sociali che sul sistema scolastico e sanitario, non coinvolge in alcun modo le amministrazioni locali, anche se queste dovranno necessariamente rispondere alle esigenze delle famiglie che sono ospitate dai CAS.
L’individuazione dell’ANCI come soggetto di coordinamento del Sistema SPRAR, corrisponde all’esigenza di avvicinare alle necessità del territorio la programmazione dell’inserimento dei richiedenti asilo e rifugiati. Questa esigenza nel corso degli anni non ha trovato risposte sempre coerenti, sia per la lenta progressione della rete SPRAR, che ha subito un pesante arresto nel biennio salviniano con il passaggio al SIPROIMI, poi cancellato dalla riforma scritta durante il secondo governo Conte dalla Ministra Lamorgese e, soprattutto dal Vice Ministro Mauri, sia per la dimensione progettuale, e quindi non stabile, dei servizi erogati. A questo si aggiunga un inspiegabile e progressiva burocratizzazione della gestione da parte dell’ANCI e del Servizio Centrale che ha determinato una crescente centralità del Ministero dell’Interno e delle sue dinamiche nel rapporto con il territorio e un conseguente allontanamento dagli interessi e dalle dinamiche locali, anche in conseguenza della mancanza di coinvolgimento del Terzo Settore che è di fatto il soggetto che gestisce concretamente l’accoglienza sul territorio fin dall’inizio di questo processo.
La centralità del Ministero dell’Interno ha determinato sia una mancanza di programmazione, a cui lo Stato sarebbe obbligato per legge, sia una grande difformità di interventi sul piano nazionale. Gruppi di famiglie aventi la stessa storia e lo stesso status giuridico, spesso nella stessa città, sono oggetto di interventi e servizi diversi, determinati dalla differenza di impostazione e risorse destinate ai CAS, che tuttora rappresentano oltre il 70% dei posti, e ai SAI (ex SPRAR).
Da un'indagine condotta dal Tavolo Asilo e Immigrazione (TAI) emerge che operatori e operatrici delle reti nazionali che lavorano in questo ambito, preferiscono senza alcun dubbio il sistema pubblico dei comuni a quello delle prefetture, ma che ne subiscono l’eccessiva burocratizzazione e la grande distanza, sentendosi spesso isolati e abbandonati proprio da quegli enti locali che rappresentano per loro il principale soggetto di riferimento. Dall’indagine le associazioni del TAI hanno ricavato una serie di proposte di riforma del sistema d’accoglienza che, a venti anni dalla Bossi Fini, sono state inviate alle istituzioni competenti, per aprire un confronto che speriamo possa portare ad una modifica nell’organizzazione e nella gestione della rete d’accoglienza pubblica.
La proposta principale avanzata dalle associazioni è quella di inserire stabilmente l’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati nel sistema pubblico dei servizi sociali, superando la precarietà dei progetti triennali volontari che vanno rinnovati, confermando le quote regionali obbligatorie già previste dal piano di ripartizione nazionale adottato orami da molti anni e fino ad oggi assicurate dalle Prefetture, attraverso un allargamento stabile del Fondo nazionale e l’affidamento alle Regioni di una funzione di coordinamento territoriale. A questa modifica del sistema d’accoglienza andrebbe aggiunta una valorizzazione ed una definizione dell’accoglienza in famiglia, finora rimasta ai margini del sistema, che consentirebbe un maggior coinvolgimento delle comunità locali.
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di Filippo Miraglia
Venti anni di Bossi Fini passati inspiegabilmente senza che nessuno dei governi di centro sinistra succedutisi abbia mai provato davvero, ed esplicitamente, a cancellarne gli effetti peggiori sulla vita delle persone e sulla gestione dell’immigrazione. L’obiettivo dichiarato dell’allora centro destra, a trazione berlusconiana, che aveva delegato a Bossi e Fini, quindi a quella parte di coalizione più dichiaratamente xenofoba, la riduzione drastica dello spazio dei diritti per le persone straniere, era di rendere più incerta e precaria la vita in Italia ai lavoratori e alle lavoratrici immigrate, legandola in maniera patologica al lavoro. Persone poco gradite in pratica, che non potevano pretendere di costruire il loro futuro nel nostro Paese che, quindi, li considerava ospiti temporanei e non cittadini. Una componente sostanziale di quell’intervento aveva, come gli altri che si sarebbero succeduti in questo ventennio, l’allargamento dello spazio del razzismo e quindi la costruzione del consenso elettorale intorno all’identificazione dello straniero come nemico: meno diritti hanno gli immigrati, meglio staranno gli italiani. Questa l’operazione politico culturale al centro di quel provvedimento legislativo.
Ma c’erano, e sussistono ancora, pesanti elementi concreti di precarizzazione della vita delle famiglie di origine straniera che ne hanno determinato in questi anni una progressiva distanza dalla pubblica amministrazione e dalle istituzioni, sostenuta anche da una grande discrezionalità nella definizione del rapporto tra Stato e stranieri.
L’unica eccezione, del tutto casuale, di quell’articolato è rappresentata dall’art.32 della 189/2002 che introduce formalmente il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR), dopo un periodo di sperimentazione realizzato in alcuni comuni attraverso il Programma Nazionale Asilo (PNA). Lo SPRAR è sostenuto dal Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’Asilo, cui provvede il Ministro dell’Interno con un proprio Decreto annuale e che, all’inizio, copriva l’80% delle spese dei progetti d’accoglienza, a cui quindi dovevano contribuire in quota parte gli enti locali che chiedevano di accedere al Fondo per coprire le spese d’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati.
Quella riforma, derivante da un obbligo definito nel Regolamento Dublino, le cui norme sono contenute nella cosiddetta “Direttiva Accoglienza” (la versione oggi in vigore è la n.33/2013), anche se nei limiti della volontarietà degli enti locali e delle risorse annualmente stabilite per Decreto dal Viminale, affida ai comuni quello che sembra poter diventare l’unico sistema d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, la cui gestione unitaria è affidata all’ANCI attraverso l’istituzione del Servizio Centrale.
Una promessa che negli anni ha mostrato progressivamente molti limiti, consentendo purtroppo lo sviluppo di un sistema straordinario affidato alle prefetture, quello dei CAS introdotto nel 2011, che da allora ha sempre rappresentato la risposta principale dello Stato, alimentando un’idea sbagliata e negativa dell’accoglienza. I CAS sono infatti spesso gestiti da enti e organizzazioni senza esperienza e competenze (che dopo alcuni anni certamente si presentano come competenti, ma che non hanno alcun interesse e alcun legame con chi promuove e tutela i diritti dei rifugiati), che si inseriscono in quello che considerano un pezzo del mercato dei servizi sociali, grazie a gare delle prefetture fatte inizialmente con condizioni di accesso molto semplici e che nel tempo hanno determinato un rapporto negativo con il territorio. A differenza degli SPRAR infatti, i CAS non prevedono alcun obbligo di coinvolgimento del territorio e degli enti locali e quindi l’impatto che determinano sia sui servizi sociali che sul sistema scolastico e sanitario, non coinvolge in alcun modo le amministrazioni locali, anche se queste dovranno necessariamente rispondere alle esigenze delle famiglie che sono ospitate dai CAS.
L’individuazione dell’ANCI come soggetto di coordinamento del Sistema SPRAR, corrisponde all’esigenza di avvicinare alle necessità del territorio la programmazione dell’inserimento dei richiedenti asilo e rifugiati. Questa esigenza nel corso degli anni non ha trovato risposte sempre coerenti, sia per la lenta progressione della rete SPRAR, che ha subito un pesante arresto nel biennio salviniano con il passaggio al SIPROIMI, poi cancellato dalla riforma scritta durante il secondo governo Conte dalla Ministra Lamorgese e, soprattutto dal Vice Ministro Mauri, sia per la dimensione progettuale, e quindi non stabile, dei servizi erogati. A questo si aggiunga un inspiegabile e progressiva burocratizzazione della gestione da parte dell’ANCI e del Servizio Centrale che ha determinato una crescente centralità del Ministero dell’Interno e delle sue dinamiche nel rapporto con il territorio e un conseguente allontanamento dagli interessi e dalle dinamiche locali, anche in conseguenza della mancanza di coinvolgimento del Terzo Settore che è di fatto il soggetto che gestisce concretamente l’accoglienza sul territorio fin dall’inizio di questo processo.
La centralità del Ministero dell’Interno ha determinato sia una mancanza di programmazione, a cui lo Stato sarebbe obbligato per legge, sia una grande difformità di interventi sul piano nazionale. Gruppi di famiglie aventi la stessa storia e lo stesso status giuridico, spesso nella stessa città, sono oggetto di interventi e servizi diversi, determinati dalla differenza di impostazione e risorse destinate ai CAS, che tuttora rappresentano oltre il 70% dei posti, e ai SAI (ex SPRAR).
Da un'indagine condotta dal Tavolo Asilo e Immigrazione (TAI) emerge che operatori e operatrici delle reti nazionali che lavorano in questo ambito, preferiscono senza alcun dubbio il sistema pubblico dei comuni a quello delle prefetture, ma che ne subiscono l’eccessiva burocratizzazione e la grande distanza, sentendosi spesso isolati e abbandonati proprio da quegli enti locali che rappresentano per loro il principale soggetto di riferimento. Dall’indagine le associazioni del TAI hanno ricavato una serie di proposte di riforma del sistema d’accoglienza che, a venti anni dalla Bossi Fini, sono state inviate alle istituzioni competenti, per aprire un confronto che speriamo possa portare ad una modifica nell’organizzazione e nella gestione della rete d’accoglienza pubblica.
La proposta principale avanzata dalle associazioni è quella di inserire stabilmente l’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati nel sistema pubblico dei servizi sociali, superando la precarietà dei progetti triennali volontari che vanno rinnovati, confermando le quote regionali obbligatorie già previste dal piano di ripartizione nazionale adottato orami da molti anni e fino ad oggi assicurate dalle Prefetture, attraverso un allargamento stabile del Fondo nazionale e l’affidamento alle Regioni di una funzione di coordinamento territoriale. A questa modifica del sistema d’accoglienza andrebbe aggiunta una valorizzazione ed una definizione dell’accoglienza in famiglia, finora rimasta ai margini del sistema, che consentirebbe un maggior coinvolgimento delle comunità locali.
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