«Da imprenditore a comandante». Ogni notte in un nascondiglio diverso. E l'amicizia con i pacifisti italiani.
Nello Scavo di Avvenire, traccia un ritratto di uno dei comandanti della "resistenza" Ucraina che parla con i pacifisti italiani: "So che loro sono contrari all’invio delle armi, anche se ne abbiamo bisogno, però loro hanno scelto di stare qui con la nostra gente. Parliamo tanto e li ammiro molto. Siamo amici".
rassegna stampa
Pubblichiamo questo articolo di Nello Scavo uscito oggi su Avvenire. L'inviato traccia un ritratto di uno dei comandanti della "resistenza" Ucraina che parla con i pacifisti italiani: "So che loro sono contrari all’invio delle armi, anche se ne abbiamo bisogno, però loro hanno scelto di stare qui con la nostra gente. Parliamo tanto e li ammiro molto. Siamo amici".
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Ogni notte un giaciglio diverso. Ieri, una buca coperta da una botola. Il giorno prima, un capanno degli attrezzi in mezzo a un campo di frumento. Oppure un riparo dietro al canneto sul fiume Bug. Il comandante Kovalenko parla di vita con la speranza di un condannato a morte. Ne è sicuro, il suo nome è nella lista dei sicari russi.
Gli omicidi mirati sono l’ultima brutalità di una guerra che tutti sanno arriverà all’inverno. Tra legna da spaccare per quando servirà il fuoco con cui sciogliere la neve e non dover più fare chilometri per trovare dell’acqua.
È di poche parole, Kovalenko. Magro e forte come un monaco zen con la faccia da ragazzo che a 47 anni ha rimesso gli scarponi da soldato. Sa d’essere ricercato dal nemico. La condanna può essere eseguita dall’alto, con un missile ipersonico. O da dietro l’angolo, dove i sabotatori russi potrebbero sbucare senza annunciarsi. Cinque li hanno arrestati domenica. Avevano telefonini «ripuliti», senza neanche una foto in memoria. E in casa un bel po’ di rubli.
Tutti sospettano di tutti. Ma di giorno Kovalenko non si nasconde. Veste da soldato. Ha una pistola nella fondina. Non ci dice se ha tolto la sicura, mentre lo incontriamo in uno dei quartieri più bersagliati di Mykolaiv. E non s’accorge che da seduto la canna della semiautomatica finisce per puntare contro di noi. «Speravo che così non mi facessi domande difficili», reagisce scherzando quando glielo facciamo notare.
Prima della guerra era un rispettato imprenditore edile. Ha parenti in politica, impegnati adesso nel volontariato per gli sfollati. I suoi operai sono ora la sua guarnigione. I russi lo vogliono morto anche per questo. Furgoni e picconi della ditta sono a disposizione di chi corre in prima linea. E anche il denaro per comprare quello che serve per la gente in armi.
Ha messo la famiglia al sicuro in Europa, ma lui non se n’è andato nonostante sia consentito lasciare il Paese per chi è padre di almeno tre figli: «È casa mia, è casa nostra. Dobbiamo farcela portare via senza dire una parola?», dice a voce bassa ma con un lampo negli occhi.
È grato quando vede arrivare aiuti umanitari dentro a pacchi “Made in Italy”. Spesso va a trovare dei volontari italiani di Operazione Colomba, che da mesi condividono la paura e gli affanni della popolazione. «So che loro sono contrari all’invio delle armi, anche se ne abbiamo bisogno, però loro hanno scelto di stare qui con la nostra gente – dice Kovalenko –. Aiutano gli sfollati e non chiedono niente. Parliamo tanto e li ammiro molto. Siamo amici. Abbiamo bisogno di loro».
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Ogni notte un giaciglio diverso. Ieri, una buca coperta da una botola. Il giorno prima, un capanno degli attrezzi in mezzo a un campo di frumento. Oppure un riparo dietro al canneto sul fiume Bug. Il comandante Kovalenko parla di vita con la speranza di un condannato a morte. Ne è sicuro, il suo nome è nella lista dei sicari russi.
Gli omicidi mirati sono l’ultima brutalità di una guerra che tutti sanno arriverà all’inverno. Tra legna da spaccare per quando servirà il fuoco con cui sciogliere la neve e non dover più fare chilometri per trovare dell’acqua.
È di poche parole, Kovalenko. Magro e forte come un monaco zen con la faccia da ragazzo che a 47 anni ha rimesso gli scarponi da soldato. Sa d’essere ricercato dal nemico. La condanna può essere eseguita dall’alto, con un missile ipersonico. O da dietro l’angolo, dove i sabotatori russi potrebbero sbucare senza annunciarsi. Cinque li hanno arrestati domenica. Avevano telefonini «ripuliti», senza neanche una foto in memoria. E in casa un bel po’ di rubli.
Tutti sospettano di tutti. Ma di giorno Kovalenko non si nasconde. Veste da soldato. Ha una pistola nella fondina. Non ci dice se ha tolto la sicura, mentre lo incontriamo in uno dei quartieri più bersagliati di Mykolaiv. E non s’accorge che da seduto la canna della semiautomatica finisce per puntare contro di noi. «Speravo che così non mi facessi domande difficili», reagisce scherzando quando glielo facciamo notare.
Prima della guerra era un rispettato imprenditore edile. Ha parenti in politica, impegnati adesso nel volontariato per gli sfollati. I suoi operai sono ora la sua guarnigione. I russi lo vogliono morto anche per questo. Furgoni e picconi della ditta sono a disposizione di chi corre in prima linea. E anche il denaro per comprare quello che serve per la gente in armi.
Ha messo la famiglia al sicuro in Europa, ma lui non se n’è andato nonostante sia consentito lasciare il Paese per chi è padre di almeno tre figli: «È casa mia, è casa nostra. Dobbiamo farcela portare via senza dire una parola?», dice a voce bassa ma con un lampo negli occhi.
È grato quando vede arrivare aiuti umanitari dentro a pacchi “Made in Italy”. Spesso va a trovare dei volontari italiani di Operazione Colomba, che da mesi condividono la paura e gli affanni della popolazione. «So che loro sono contrari all’invio delle armi, anche se ne abbiamo bisogno, però loro hanno scelto di stare qui con la nostra gente – dice Kovalenko –. Aiutano gli sfollati e non chiedono niente. Parliamo tanto e li ammiro molto. Siamo amici. Abbiamo bisogno di loro».
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