In Università per parlare di “Un mondo vulnerabile: il futuro del pacifismo tra guerre, migrazioni e rapporti di genere”
Comunicati stampa
Venerdì 6 dicembre si è tenuto all'Università di Parma il convegno "In un mondo vulnerabile: il futuro del pacifismo tra guerre, migrazioni e rapporti di genere" promosso dall’Università di Parma e da CIAC nell’ambito dei progetti SAI “Una città per l’asilo” e “Terra d’asilo”, e inserito nel programma del Festival della Pace – Ridiamo i colori alla pace, sostenuto dalla Casa della Pace e dal Comune di Parma. In apertura dell'incontro è intervenuto anche il presidente di Ciac, Emilio Rossi, vi riportiamo le sue parole.
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EMILIO ROSSI - PRESIDENTE DI CIAC
«Avvicinandoci al 10 dicembre Giornata internazionale per i Diritti Umani c'è un testo che il Coordinamento Nazionale Enti Locali per la Pace e i diritti umani, del Centro di Ateneo per i Diritti Umani “Antonio Papisca” dell’Università di Padova e della Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace. chiedono a tutti i comuni di adottare. L'esordio è così:
"In occasione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite l’Alto Commissario per i Diritti Umani ha affermato che “ci troviamo in un periodo storico particolarmente pericoloso, in particolare quando il disprezzo e la mancanza di rispetto per il diritto internazionale umanitario e per il diritto internazionale dei diritti umani sta raggiungendo un crescendo assordante” e che “il diritto internazionale è l'edificio che le generazioni che ci hanno preceduto hanno costruito per proteggere l'umanità dall'autodistruzione".
Sono parole di assoluta preoccupazione, che penso vadano persino oltre la constatazione della vulnerabilità del Mondo, per tutte le ragioni che questo convegno sviluppa, e penso ci segnalino che probabilmente ci troviamo già sull'orlo del baratro.
Trascurando il diritto, quale è espresso dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, è diventato consueto per i governi non impegnarsi più nella prevenzione dei conflitti o nella ricerca di soluzioni diplomatiche ma scegliere il riarmo.
Ed ecco che nel Mondo la spesa militare cresce esponenzialmente, è stata raddoppiata negli ultimi vent’anni, e ha raggiunto nel 2023 il record storico di 2.443 miliardi di dollari: della quota globale il 37% è sostenuto dagli Stati Uniti solamente, il 55% dall’insieme dei paesi NATO. La Cina è al 12%, la Russia al 4% (SIPRI).
Guadagni eccellenti per l’industria delle armi. E le armi servono per fare guerre.
Nel mondo sono attivi 56 conflitti, il numero più alto mai registrato dalla fine della Seconda guerra mondiale. Crescente il numero dei Paesi impegnati in conflitti internazionali, cioè oltre i loro confini: sono attualmente 92 Paesi. E’ il maggior numero mai registrato anche dall’avvio del Global peace index nel 2008. In crescita anche il numero di conflitti minori. (Il dato emerge dall’edizione 2024 del Global peace index, pubblicato a giugno dall’Institute for Economics & Peace).
Anzitutto dobbiamo far attenzione alle parole, parole che mascherano. Nel passato recente siamo stati coinvolti in guerre presentate come operazioni militari per “esportare la democrazia” o come “guerre umanitarie”. Camuffamenti subito sostenuti dai media di guerre effettive. Assange ce ne ha mostrato la realtà.
Avrete notato che ci hanno sostituito la parola “pace” con la parola “sicurezza”. E per quella si agisce. Ma la parola sicurezza è equivoca, nasconde altro: la concentrazione dei capitali nelle mani di pochi, la conquista dei mercati, misure accanite e disumane contro coloro che cercano protezione, l’accaparramento delle fonti fossili, il neocolonialismo. Sicurezza internazionale è anzitutto difesa militare dei propri interessi internazionali e in ciò potrebbe sottintendere la parola dominio.
L’ONU viene svilito, marginalizzato, accusato di inefficacia proprio da quei Paesi che massimamente puntano al riarmo e contemporaneamente riducono ai minimi le risorse che destinano all’ONU.
Giustizia e pace che ugualmente raggiungano tutti i popoli della terra è questione che si vuole abbandonare. Perciò si colpisce l’ONU che è sorto - così è scritto nel suo statuto - per “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” e nel cui alveo è nata la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Dunque l’ONU va difeso, opportuno riformarlo poiché è ormai anacronistico che i Paesi vincitori della seconda guerra mondiale abbiano tuttora il diritto di veto, e certamente va potenziato, perché è l’unico strumento che abbiamo, perché è voce di tutti i Popoli della Terra L’alternativa, lo stiamo intravedendo, è il prevalere brutale della legge del più forte.
Il 29 novembre scorso, presso l’ONU, la pediatra statunitense Tanya Haj-Hassan ha dichiarato: “A Gaza ho visto il preludio della fine dell’umanità”.
La guerra e le sue sorelle, presenti anch’esse in questo Mondo vulnerabile e in pericolo:
- la diseguaglianza globale che ha raggiunto il massimo storico: il 10% della popolazione possiede il 76% di tutta la ricchezza globale. I ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, in evidentissima contraddizione con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Le diseguaglianze sono causa di conflitti, ma possono anche essere effetto di conflitti volti a mantenerle;
- l’economia di rapina verso le risorse del Pianeta. E inoltre c’è la concentrazione di gas serra nell’atmosfera e ci sono gli effetti di cambiamento climatico nemmeno risarciti al Sud del Mondo. C’è la compromissione ambientale ed ecologica dovuta strettamente alla guerra;
- la moltitudine di persone che vogliono scampare alla morte, cui i governi dei Paesi più ricchi - tra cui gli europei - bloccano i movimenti. E’ una guerra, verso persone inermi. Vediamo puniti i soccorsi, le persone innocenti continuare a morire. Vediamo consegnare le persone alla violenza e alla tortura in paesi vicini. Vediamo il nostro Paese prendere misure verso i migranti che non appaiono dettate dalla sensatezza ma piuttosto dalla crudeltà e dal calcolo elettorale.
Sono queste le persone cui CIAC si dedica.
Io credo che le domande semplici siano utili a riportare ragionevolezza.
C’è una ragione fondata o è pura follia la pretesa per cui dovremmo considerare i migranti come nemici? Conoscerli e guardarli in volto dà la risposta.
Se noi andiamo liberamente in Africa, e dovunque, e constatiamo d’essere costantemente ben accolti, per qual motivo dovremmo guardarli in cagnesco quando gli africani arrivano qui? Perché non dovrebbero potersi spostare come noi?
Se l’arrivo per così dire “autonomo” in Italia è una infrazione amministrativa, non un reato, non è forse il nostro Paese a commettere reati quando ometta il soccorso o privi le persone della libertà?
Quando ci fu da scrivere, già nello statuto originale, perché volessimo dar vita a CIAC scrivemmo che volevamo dare attuazione alla Costituzione Italiana e alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Questo siamo.
Sono leggi fondamentali, esiti massimi raggiunti nel ‘900, che la sofferenza dei nostri nonni e la saggezza dei popoli ci hanno consegnato. Non a caso entrambe ora sono sottoposte ad attacco. Dobbiamo strenuamente difenderle, come punti d’arrivo irrinunciabili. Da sviluppare in coerenza, mai aggirare o cercare di cancellare.
Sono leggi da leggere insieme – perché entrambe sono nell’Ordinamento giuridico italiano - prevedono il ripudio della guerra, la solidarietà, il diritto d’asilo, stabiliscono che tutti gli esseri umani hanno uguali diritti, richiedono che “gli esseri umani agiscano gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Abbiamo le risposte alle domande che facevo prima. Sono leggi pacifiste.
Chiediamo il cessate il fuoco dovunque. Chiediamo – ora – il passaggio dalla economia di guerra alla economia di pace. Chiediamo che i diritti degli individui e dei popoli oltreché enunciati e oltreché divenuti legge siano anche diritti garantiti, come ha scritto Luigi Ferrajoli (“Per una Costituzione della Terra”).
Questo convegno si interroga anche sul futuro del pacifismo. Essendo il pacifismo ancorato appunto a solidissime basi, credo che dovrà avere un lungo futuro e avrà molto lavoro da svolgere. Certamente sappiamo che l’alternativa sarebbe cadere nel baratro.»
EMILIO ROSSI - PRESIDENTE DI CIAC
IL COMUNICATO STAMPA
PARMA 9 DICEMBRE 2024 - Cinquantasei conflitti attivi nel mondo e una persona su 7 esposta a guerre nel 2024: questi numeri drammatici raccontano una realtà in cui, in molti Paesi, si nasce e si cresce tra conflitti, lutti e sofferenze. In questo contesto di vulnerabilità globale si è tenuto venerdì 6 dicembre, presso l’Università di Parma, il convegno “In un mondo vulnerabile. Il futuro del pacifismo tra guerre, migrazioni e rapporti di genere”, promosso dall’Università di Parma e da CIAC nell’ambito dei progetti SAI “Una città per
l’asilo” e “Terra d’asilo”, e inserito nel programma del Festival della Pace – Ridiamo i colori alla pace, sostenuto dalla Casa della Pace e dal Comune di Parma.
L’evento, aperto a studenti, ricercatori e cittadini, ha esplorato le interconnessioni tra i grandi temi del nostro tempo e la quotidianità, riunendo esperti, accademici e giornalisti per analizzare conflitti globali, migrazioni forzate, lotte per i diritti e discriminazioni di genere.
La giornata si è aperta con i saluti istituzionali di Daniele Del Rio, prorettore dell’Università di Parma, e Daria Jacopozzi, assessora alla pace del Comune di Parma, seguiti dagli interventi introduttivi di Emilio Rossi, presidente di CIAC e Casa della Pace, e Marco Deriu, sociologo e presidente del CdLM in Giornalismo, cultura editoriale, comunicazione ambientale e multimediale dell’Università di Parma.
Il primo panel, dal titolo “Non c’è pace senza giustizia: guerre, migrazioni forzate e lotte per i diritti”, è stato moderato dalla sociologa e responsabile dell’area Progettazione ricerca e comunicazione di Ciac Chiara Marchetti. Gli ospiti hanno affrontato il tema dei conflitti e delle migrazioni da prospettive personali e
collettive. Agostino Zanotti, vicepresidente Coordinamento provinciale degli Enti locali per la Pace e la Cooperazione internazionale, ha sottolineato l’importanza di incontrare e conoscere “l’altro” per non considerarlo solo un numero ma una persona con una storia e con cui instaurare una relazione umana. Vesna Sćepanović, giornalista e formatrice teatrale, ha offerto il suo toccante racconto personale come migrante dalla ex Iugoslavia, una testimonianza che ha messo in luce le difficoltà che affrontano i migranti, non solo nel cercare un futuro, ma anche nel mantenere un senso di linearità nella propria vita interrotta dalla guerra e nel conoscere il proprio paese in cui non si vive più. Ha poi riflettuto su come i conflitti inizino molto prima degli scontri armati, attraverso dinamiche di tensione e ingiustizie che spesso rimangono invisibili fino a quando non esplodono. Gabriella Ghermandi, scrittrice, narratrice e musicista italo-etiope, ha approfondito il ruolo cruciale della narrazione nel contesto dei conflitti, sottolineando come le guerre inizino prima di tutto sul piano simbolico, con la costruzione di stereotipi e falsi miti che legittimano la violenza e preparano il terreno ai conflitti armati. Hisam Allawi, poeta curdo siriano e operatore CIAC, ha dato voce alla vulnerabilità e alla speranza attraverso la poesia, leggendo alcuni brani in arabo tratti dal suo nuovo libro Matria, che evocano un profondo senso di appartenenza e di ricerca di pace nonostante l’impossibilità di ritornare nel proprio paese.
La mattinata è proseguita con un dialogo tra la giornalista Giovanna Pavesi, il giornalista Paolo Cacciari e il biologo Gianni Tamino, che hanno evidenziato l’importanza di una decrescita non intesa come una crescita negativa, ma come una scelta di sobrietà e sostenibilità, un percorso essenziale per la pace e il benessere globale.
Il panel successivo delle 14.30 è stato moderato da Simone Baglioni, prorettore alla didattica dell’Università di Parma e gli ospiti si sono concentrati sul tema “L’impegno per la pace in un mondo di guerre: il ruolo dell’università”. Claudio Baraldi, sociologo dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ha messo in luce l’importanza di un’educazione interculturale e non multiculturale che si concentri sul percorso del singolo studente per non alimentare stereotipi basati sulla cultura. Alessio Surian, psicologo e pedagogista dell’Università di Padova, ha introdotto una prospettiva decoloniale, invitando a ripensare le relazioni di potere implicite nei processi di costruzione del sapere. Il fisico Roberto Fornari ha riflettuto sulla necessità di sensibilizzare alla pace e di tornare a creare coscienza nei contesti accademici. Stefano Caselli, ingegnere informatico, ha presentato il progetto Romor, un progetto di scambio Erasmus per gli studenti e le studentesse palestinesi che, pur non avendo il potere di cambiare la situazione geopolitica può cambiare molto la vita di chi aderisce. La sociologa Vincenza Pellegrino ha denunciato la struttura segregante dell’università, evidenziando l’importanza di aprire spazi in cui imparare a produrre sapere. Mattia Dall’Aglio, studente in rappresentanza dei movimenti studenteschi, ha ribadito l'importanza di scardinare la disaffezione alla politica nelle università, che non devono accettare la cultura del militarismo ma promuovere una cultura critica contro le guerre.
Il panel conclusivo, “Prendersi cura della vulnerabilità: il pacifismo in un mondo plurale”, moderato da Danilo Amadei della Casa della Pace, ha offerto una riflessione sulle difficoltà e le opportunità di costruire una pace inclusiva. Raffaele Crocco, direttore Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, ha spiegato come le insicurezze collettive alimentino il consenso alle guerre, rivelando il legame profondo tra vulnerabilità e conflitto. Francesco Pugliese, giornalista, scrittore e storico del pacifismo, ha evidenziato la necessità di riscoprire e valorizzare la storia dei movimenti pacifisti, un patrimonio di idee e pratiche che può essere fonte di ispirazione per affrontare le sfide attuali. Bruna Bianchi, storica, Università Ca’ Foscari di Venezia, ha posto l’attenzione sul potere della non violenza, unica strada capace di generare un cambiamento reale e duraturo, e ha denunciato l’invisibilizzazione storica delle donne che hanno contribuito alla costruzione della politica della non violenza. Il sociologo Adel Jabbar ha infine offerto una prospettiva storica sul conflitto palestinese dalle origini a oggi, evidenziandone i numerosi passaggi politici e simbolici.
Le conclusioni sono state affidate ad Alessandro Pagliara, storico e referente della Rete delle Università per la Pace, che ha ribadito l’urgenza di un impegno educativo per costruire una cultura di pace, sottolineando che l’università di Parma continuerà questo percorso con grande impegno e ottimismo.