Nasce il “Comitato per il diritto al soccorso”
Cronaca
«I loose my baby», «where is my baby?», «Ho perso il mio bambino», «dov’ è il mio bambino?».
Le urla strazianti di questa madre mentre si guarda attorno in mezzo a un mare cupo e grigio saranno difficili da dimenticare. Il piccolo Joseph è stato poi ritrovato. Non ce l’ ha fatta. A soli 6 mesi ha perduto la vita, anche lui, nel Cimitero Mediterraneo. Questa volta c’ era una telecamera a documentare la tragedia, quella di Open Arms, mentre i soccorritori della nave umanitaria spagnola cercavano di salvare il maggior numero possibile dei 120 naufraghi, finiti in acqua proprio mentre l’ imbarcazione umanitaria stava arrivando per i soccorsi. Il fondo della barca dei migranti ha ceduto, all’ improvviso. Open Arms ne ha potuto trarre in salvo solo 47, che si sono aggiunti però agli altri quasi 200 salvati in altre due operazioni di emergenza. Open Arms è l’ unica unità della flotta umanitaria che in questo momento è operativa nel Mediterraneo. Tutte le altre sono state bloccate, con dei “fermi amministrativi” dalle autorità italiane nei nostri porti.
A fronte di questi 200 fortunati tratti a bordo, però, almeno un centinaio sono le vittime di questi ultimissimi giorni. E più o meno altrettanti sono stati intercettati dalla Guardia Costiera Libica e riportati nei lager del Paese africano. Dall’ inizio di ottobre almeno 8 barche di migranti sono naufragate e sono più di 900 le vittime del Mediterraneo dall’ inizio dell’ anno, 11 mila persone sono state riportate in Libia. Uno stillicidio di vite umane che prosegue nell’ inazione totale dei governi, italiano ed europei.
Oggi il piccolo Joseph, ieri Aylan, il bambino ritrovato morto nell’ ottobre 2015 sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, e prima la strage di Lampedusa, quando si disse “mai più”: 268 vittime, annegati a un miglio marino dalla salvezza. Eppure le morti continuano. E le navi umanitarie di soccorso vengono ostacolate, in modo sistematico.
La società civile dice “basta”, lo dice ancora una volta: «Negli anni i morti aumentano e cresce la nostra responsabilità», dice Roberto Rossini, presidente delle Acli. «Le parole non sono sufficienti per lavarsi la coscienza, occorre più coraggio e determinazione». «La perdita di vite umane nel Mediterraneo», afferma Federico Soda, capo missione dell'Oim in Libia (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) «è una manifestazione dell'incapacità degli Stati di intraprendere un'azione decisiva per la ricerca e il soccorso quanto mai necessario in quella che è ormai la rotta più mortale del mondo». «Non possiamo continuare a contare i morti: aumentare i canali sicuri dalla Libia deve essere una priorità», aggiunge Chiara Cardoletti, rappresentante dell’ Unhcr presso il Governo italiano e la Santa Sede.
E ancora monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo: «A me ha provocato angoscia il grido di quella mamma», ha detto a Vatican News. «Mi ha richiamato il grido biblico di Rachele che urla il suo dolore e non vuole essere consolata perché il figlio non le sarà più dato. Ecco questa è un'immagine, credo esemplare, in questo momento. Di fronte a tanto dolore, noi restiamo tutti indifferenti, è una pagina di cronaca che prima la archiviamo e meglio è per tutti: questo è il pensiero di quelli che vogliono scaricare la propria coscienza, la propria responsabilità. Io qui da pastore dico che non possiamo voltarci dall’ altro lato, prendo in prestito le parole di Papa Francesco, è la “globalizzazione dell'indifferenza”. Come facciamo a stare in pace di fronte a questa ecatombe che quotidianamente insanguina il Mediterraneo? Il nostro cuore piange però noi possiamo soltanto alzare la voce di fronte a una indifferenza generalizzata del mondo della politica, oltre che della cultura e purtroppo, ahimé, anche di tanti nostri fratelli nella fede».
In questo quadro desolante, c’ è però una notizia positiva: è stata annunciata la nascita del “Comitato per il diritto al soccorso”, promosso dalle organizzazioni della flotta umanitaria (Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea–Saving Humans, ResQ–People Saving People, Proactiva Open Arms, Sea-Watch) e formato da un gruppo di giuristi ed esperti autorevoli: Vittorio Alessandro, Francesca De Vittor, Luigi Ferrajoli, Paola Gaeta, Luigi Manconi (responsabile del Comitato), Federica Resta, Armando Spataro, Sandro Veronesi, Vladimiro Zagrebelsky.
Come si legge nel Manifesto costitutivo, l’ organismo di garanzia nasce per svolgere “una funzione di ‘tutela morale’ dell’ attività di salvataggio e un’ opera di difesa giuridica informata e autorevole”. E per contribuire “al formarsi, nell'opinione pubblica italiana ed europea, di un costante orientamento di sostegno all’ attività di salvataggio in mare, che solleciti e accompagni il ripristino di un efficace sistema istituzionale di ricerca e soccorso. Un sistema che veda coinvolti quanti operano nel Mediterraneo, navi mercantili e pescherecci compresi, insieme alle imbarcazioni delle Ong e a quelle della guardia costiera, nella prospettiva che siano gli Stati e le loro strutture – come vuole il diritto internazionale – ad assumere interamente quel compito. E ciò al fine di affermare, ancora una volta, il senso di una condivisa responsabilità universale che fonda il diritto al soccorso e l’ intero sistema dei diritti umani”.
Perché ciò che è accaduto a Joseph, ad Aylan e a Lampedusa il 3 ottobre 2013 non avvenga mai più.
Ecco il testo integrale del Manifesto del Comitato per il diritto al soccorso.
Uomo in mare. Quel grido ha attraversato gli oceani e i secoli e ha sempre trovato qualcuno pronto ad ascoltarlo. E a soccorrere chi fosse in stato di pericolo. Oggi quello stesso grido di aiuto rischia di non essere raccolto: e restano senza risposta le voci di tanti che, ogni giorno che passa, sono lasciati morire nelle acque del mare Mediterraneo. Migranti e profughi che fuggono dalle coste settentrionali dell’ Africa per cercare in Europa un’ opportunità di vita e una speranza di futuro. Il mare Mediterraneo è stato in questi anni una delle principali vie di fuga dagli orrori delle guerre e delle catastrofi naturali, dei conflitti tribali e delle persecuzioni religiose, etniche e politiche, delle carestie e delle pandemie. Una via di fuga dove trafficanti di esseri umani, mercanti di schiavi e truppe mercenarie, hanno imperversato vendendo e comprando uomini, donne e bambini, sequestrando ed estorcendo, seviziando e torturando, dal deserto del Sahel ai campi di detenzione in Libia fino alle acque, dove le milizie affondano le barche dei profughi e sparano sui naufraghi. È uno scenario quotidiano che si rinnova da decenni, conseguenza perversa della globalizzazione e dello scambio ineguale, della nuova divisione internazionale del lavoro e della subordinazione economica e commerciale dei paesi poveri alle grandi potenze. L’ esito ultimo di questi processi sono i flussi migratori che percorrono tutte le rotte dal sud verso nord e che interessano l’ Africa, il Medio Oriente e i Balcani. Qui, nel Mare Nostrum, quei flussi si addensano, precipitano, si inabissano, in una strage continua di cui ignoriamo i numeri reali. E sempre qui si gioca una partita capitale intorno alla tutela della vita umana.
Da sempre, da quando quel grido “uomo in mare” echeggiò la prima volta, l’ accorrere in aiuto, il prestare soccorso, l’ offrire salvezza, è stato considerato sentimento naturale e legge universale, principio assoluto e diritto-dovere fondamentale. Il mutuo soccorso è stato il primo legame sociale e la base della reciprocità nelle relazioni tra gli esseri umani. Il mutuo soccorso costituisce il passaggio da individuo a soggetto sociale, a membro di una comunità. Da qui nasce il diritto al soccorso come istanza primaria di tutela della vita nelle costituzioni e nelle convenzioni internazionali e quale fondamento di tutti gli altri diritti.
Oggi, tutto ciò rischia di essere mortificato e compresso, se non direttamente negato, in nome della sicurezza dei confini esterni e della difesa “dall’ invasione” delle moltitudini povere. La protezione delle frontiere meridionali dell’ Europa diventa il valore supremo, in nome del quale si arriva a sospendere quello che si pensava fosse un diritto irrinunciabile. Il soccorso in mare viene assimilato a un’ attività criminale da interdire, contrastare, penalizzare. E così quelle stesse istituzioni italiane – che avevano svolto un ruolo significativo nel promuovere l’ operazione detta Mare Nostrum – hanno adottato una politica decisamente opposta. Con ciò hanno contraddetto consolidate norme internazionali che affidano proprio agli Stati costieri il compito di assicurare un efficace coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio. È questo vuoto di iniziativa da parte degli Stati e delle loro strutture che ha reso indispensabile l’ intervento delle Ong del soccorso in mare. Oggi esse sono il bersaglio di questa cupa involuzione del diritto e di questa abiura dei principi fondamentali della civiltà giuridica. Ormai, dal 2016, si trovano al centro di un’ aggressiva campagna di delegittimazione. Ostacolate, intimidite, sottoposte a pressioni, sono state oggetto di numerose iniziative giudiziarie, conclusesi tutte senza che nei loro confronti fosse richiesto un solo rinvio a giudizio. Di fronte alle più pesanti accuse, fino a quella di avere operato in diretta complicità con i trafficanti e a quella di incentivare con la loro presenza le partenze dalla Libia, hanno risposto argomentando le ragioni unicamente umanitarie della loro attività. L’ ostilità verso le Ong si è manifestata attraverso una serie di provvedimenti da parte delle autorità italiane, spesso in collaborazione con altri stati membri UE e con le istituzioni europee. Da qui, le pressioni da parte dei governi italiani nei confronti di stati terzi per richiedere il ritiro della bandiera alle navi di soccorso; l'introduzione del divieto di accesso alle acque territoriali e ai porti italiani per le navi delle Ong, con relative sanzioni economiche; il ricorso sproporzionato ad attività di controllo ispettivo e il frequente sequestro amministrativo delle navi dopo ogni sbarco. L'offensiva contro le Ong non ha solo provocato danni alla loro reputazione, ma ha finito per compromettere irrimediabilmente la percezione positiva che, negli anni precedenti, una parte significativa dell'opinione pubblica aveva mostrato nei loro confronti. Di conseguenza, le Ong si sono trovate costrette a difendere le stesse ragioni della propria esistenza e impossibilitate a negoziare con le autorità italiane un proprio spazio d'azione. Questo ha indotto le Ong che operano in mare – Open Arms, Sea Watch, Mediterranea, SOS Méditerranée, Medici Senza Frontiere, Emergency, ResQ – a promuovere un Comitato per il diritto al soccorso, che svolga una funzione di “tutela morale” dell’ attività di salvataggio e un’ opera di difesa giuridica informata e autorevole. E che contribuisca al formarsi, nell'opinione pubblica italiana ed europea, di un costante orientamento di sostegno all’ attività di salvataggio in mare, che solleciti e accompagni il ripristino di un efficace sistema istituzionale di ricerca e soccorso. Un sistema che veda coinvolti quanti operano nel Mediterraneo, navi mercantili e pescherecci compresi, insieme alle imbarcazioni delle ONG e a quelle della guardia costiera, nella prospettiva che siano gli Stati e le loro strutture - come vuole il diritto internazionale - ad assumere interamente quel compito. E ciò al fine di affermare, ancora una volta, il senso di una condivisa responsabilità universale che fonda il diritto al soccorso e l’ intero sistema dei diritti umani.
Comitato per il diritto al soccorso