"Ucraina: se c’è la volontà, si può accogliere, nonostante la retorica”
Intervista al direttore di Ciac Michele Rossi: "A Parma e non solo osserviamo arrivi numerosi, una certa paralisi istituzionale e una straordinaria attivazione comunitaria, dell’associazionismo organizzato e della cittadinanza attiva"
rassegna stampa
Pubblichiamo uno stralcio dell'intervista del direttore di Ciac Michele Rossi alla rivista Altreconomia, riguardo la situazione in Ucraina firmato dal direttore Duccio Facchini. "A Parma e non solo osserviamo arrivi numerosi, una certa paralisi istituzionale e una straordinaria attivazione comunitaria, dell’associazionismo organizzato e della cittadinanza attiva".
La versione integrale si può leggere QUI.
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“La crisi in Ucraina e il desiderio di accogliere qui le persone in fuga dimostrano ancora una volta che la solidarietà ‘fa spazio’ e che in Italia, se c’è la volontà, si può accogliere, nonostante la retorica”. Michele Rossi è direttore generale del Centro immigrazione asilo e cooperazione onlus (Ciac) di Parma, storico ente di tutela, accoglienza e integrazione della popolazione migrante e rifugiata, e coordinatore nazionale della rete Europasilo. Con il Ciac sta vivendo direttamente l’emergenza ucraina, gli arrivi, le risposte istituzionali e quelle dal basso. All’8 marzo secondo il ministero dell’Interno erano già 21.095 i “cittadini ucraini entrati al momento in Italia”: 10.553 donne, 1.989 uomini e 8.553 minori. Giunti principalmente a Roma, Milano, Napoli e Bologna. Il Ciac di Parma si è detto pronto a fare la propria parte per accogliere chi deciderà di lasciare l’Ucraina e ha chiesto a tutti i parmigiani di dare una mano, perché “per mettere in pratica i progetti sono fondamentali gli appartamenti”.
Michele, che cosa sta succedendo?
A Parma e non solo osserviamo arrivi numerosi, una certa paralisi istituzionale e una straordinaria attivazione comunitaria, dell’associazionismo organizzato e della cittadinanza attiva.
Il sistema di accoglienza istituzionale è in grado di dare questa risposta?
Una crisi di questa portata e dimensione mostra le contraddizioni irrisolte del sistema di accoglienza, che non ha saputo e voluto essere ampliato. I centri straordinari prefettizi, eletti a risposta ordinaria dal legislatore, sono saturi e soprattutto non hanno i servizi che servono nei momenti di massimo bisogno, specie per l’utenza dei nuclei familiari, che siano ucraini o afghani o nigeriani. Il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai, fu Sprar) continua a mostrare una caratterizzazione etnica, che troviamo sbagliata, e tempi di attivazione lunghissimi, cioè è bloccato. Faccio un esempio: a sette mesi di distanza la grande maggioranza delle persone evacuate dall’Afghanistan sono ancora in strutture emergenziali perché il Sai non è stato messo nelle condizioni di rispondere tempestivamente. I posti dedicati sono tutt’ora pochissimi (solo tremila per cinquemila persone evacuate) e i tempi per affidare i servizi, ripeto, sono lunghissimi.
Da oltre vent’anni pratichi l’accoglienza “vera e duratura”, come valuti il picco di solidarietà verso i cittadini ucraini in fuga dopo anni di diffusa diffidenza, rifiuto, paura infondata?
MR Il Ciac nasce dal volontariato quindi queste attivazioni dal basso non ci disturbano e non le giudico male. Credo siano momenti in cui le comunità fanno esperienza e soprattutto superano le storture di questi anni: la solidarietà, che non è mai scontata, fa spazio, i modi per accogliere ci sono. Alle persone, alle associazioni e alle comunità che si stanno muovendo voglio dire solo che c’è una componente più professionale, fatta di tecnici, operatori, enti di tutela, che ora deve dare risposte organizzate, mentre i singoli e i volontari possono e devono riferirsi a queste organizzazioni per non improvvisare, non sostituire servizi che dobbiamo invece reclamare dalle istituzioni, per gli ucraini e non solo. È fondamentale perciò creare clima e relazioni favorevoli affinché le persone si sentano accolte, riconosciute dalle comunità che gli stanno intorno. Ma non facciamo il “ci penso io”, perché si rischia solo di creare confusione e soprattutto tanta dipendenza.
È l’ennesima occasione da non perdere che cade proprio nel ventennale del trasformato sistema Sai/Sprar, istituito nel 2002 con la legge 189.
MR Non la perderemo se ci sarà davvero un dibattito sulla riforma del sistema di accoglienza, che ricordo essere stato istituzionalizzato a partire dal 2001 sull’onda di un’esperienza straordinaria accaduta negli anni Novanta per iniziativa della società civile, laica e religiosa, durante la guerra della ex-Jugoslavia, “La guerra in casa”, per citare il libro di Luca Rastello. All’epoca si aveva in testa una protezione, un’accoglienza e una tutela immerse nella comunità, emancipanti e non segreganti, in famiglia, diffuse. Questa era ed è la forza dello Sprar che non può chiudere, demandando al volontariato o al privato, e soprattutto non può essere sfruttato e abbandonato, come accaduto troppo spesso.
La versione integrale si può leggere QUI.
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“La crisi in Ucraina e il desiderio di accogliere qui le persone in fuga dimostrano ancora una volta che la solidarietà ‘fa spazio’ e che in Italia, se c’è la volontà, si può accogliere, nonostante la retorica”. Michele Rossi è direttore generale del Centro immigrazione asilo e cooperazione onlus (Ciac) di Parma, storico ente di tutela, accoglienza e integrazione della popolazione migrante e rifugiata, e coordinatore nazionale della rete Europasilo. Con il Ciac sta vivendo direttamente l’emergenza ucraina, gli arrivi, le risposte istituzionali e quelle dal basso. All’8 marzo secondo il ministero dell’Interno erano già 21.095 i “cittadini ucraini entrati al momento in Italia”: 10.553 donne, 1.989 uomini e 8.553 minori. Giunti principalmente a Roma, Milano, Napoli e Bologna. Il Ciac di Parma si è detto pronto a fare la propria parte per accogliere chi deciderà di lasciare l’Ucraina e ha chiesto a tutti i parmigiani di dare una mano, perché “per mettere in pratica i progetti sono fondamentali gli appartamenti”.
Michele, che cosa sta succedendo?
A Parma e non solo osserviamo arrivi numerosi, una certa paralisi istituzionale e una straordinaria attivazione comunitaria, dell’associazionismo organizzato e della cittadinanza attiva.
Il sistema di accoglienza istituzionale è in grado di dare questa risposta?
Una crisi di questa portata e dimensione mostra le contraddizioni irrisolte del sistema di accoglienza, che non ha saputo e voluto essere ampliato. I centri straordinari prefettizi, eletti a risposta ordinaria dal legislatore, sono saturi e soprattutto non hanno i servizi che servono nei momenti di massimo bisogno, specie per l’utenza dei nuclei familiari, che siano ucraini o afghani o nigeriani. Il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai, fu Sprar) continua a mostrare una caratterizzazione etnica, che troviamo sbagliata, e tempi di attivazione lunghissimi, cioè è bloccato. Faccio un esempio: a sette mesi di distanza la grande maggioranza delle persone evacuate dall’Afghanistan sono ancora in strutture emergenziali perché il Sai non è stato messo nelle condizioni di rispondere tempestivamente. I posti dedicati sono tutt’ora pochissimi (solo tremila per cinquemila persone evacuate) e i tempi per affidare i servizi, ripeto, sono lunghissimi.
Da oltre vent’anni pratichi l’accoglienza “vera e duratura”, come valuti il picco di solidarietà verso i cittadini ucraini in fuga dopo anni di diffusa diffidenza, rifiuto, paura infondata?
MR Il Ciac nasce dal volontariato quindi queste attivazioni dal basso non ci disturbano e non le giudico male. Credo siano momenti in cui le comunità fanno esperienza e soprattutto superano le storture di questi anni: la solidarietà, che non è mai scontata, fa spazio, i modi per accogliere ci sono. Alle persone, alle associazioni e alle comunità che si stanno muovendo voglio dire solo che c’è una componente più professionale, fatta di tecnici, operatori, enti di tutela, che ora deve dare risposte organizzate, mentre i singoli e i volontari possono e devono riferirsi a queste organizzazioni per non improvvisare, non sostituire servizi che dobbiamo invece reclamare dalle istituzioni, per gli ucraini e non solo. È fondamentale perciò creare clima e relazioni favorevoli affinché le persone si sentano accolte, riconosciute dalle comunità che gli stanno intorno. Ma non facciamo il “ci penso io”, perché si rischia solo di creare confusione e soprattutto tanta dipendenza.
È l’ennesima occasione da non perdere che cade proprio nel ventennale del trasformato sistema Sai/Sprar, istituito nel 2002 con la legge 189.
MR Non la perderemo se ci sarà davvero un dibattito sulla riforma del sistema di accoglienza, che ricordo essere stato istituzionalizzato a partire dal 2001 sull’onda di un’esperienza straordinaria accaduta negli anni Novanta per iniziativa della società civile, laica e religiosa, durante la guerra della ex-Jugoslavia, “La guerra in casa”, per citare il libro di Luca Rastello. All’epoca si aveva in testa una protezione, un’accoglienza e una tutela immerse nella comunità, emancipanti e non segreganti, in famiglia, diffuse. Questa era ed è la forza dello Sprar che non può chiudere, demandando al volontariato o al privato, e soprattutto non può essere sfruttato e abbandonato, come accaduto troppo spesso.