La tutela dei migranti è tutela della comunità - L'APPROFONDIMENTO
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La tutela dei migranti è tutela della comunità
NO AI CAMPI, SI ALL’ACCOGLIENZA PUBBLICA E DIFFUSA
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“E' il momento delle posizioni scomode”
I container, le panche su cui dormire, la mancanza di informazioni, le fughe, la disumanità a cui fanno da contorno le discussioni politiche. A luglio 2023 a Parma ha aperto un campo profughi e non sarà l’ultimo. Sono i cosiddetti centri di accoglienza temporanea: soluzioni non compatibili con i diritti umani. Tutto nasce dalla tanto evocata – quanto fasulla - emergenza sbarchi. Una bugia che, paradossalmente, ha portato il governo ad attaccare frontalmente il diritto di asilo, tentare di distruggere il sistema di accoglienza e creare luoghi non luoghi in cui vengono violati i diritti fondamentali degli esseri umani.
E allora? Allora è arrivato il momento delle posizioni scomode. Di analizzare quanto sta accadendo e provare a mettere in campo le contromisure. Da questa necessità nasce questo documento sottoscritto da Ciac e da chiunque lo vorrà. Speriamo possa contribuire all'approfondimento e alla comprensione della gravità delle condizioni in cui si trovano i migranti presenti nei campi del parmense. Conoscere per attivarsi. Più in generale crediamo che la difesa dei diritti umani e di un sistema di accoglienza pubblico, integrato e diffuso sia una questione urgente che riguarda non solo le istituzioni ma anche tutti i cittadini e le cittadine del nostro territorio.
Ne emerge un quadro sconfortante. Eppure, siamo convinti che si possa invertire la rotta. A questo documento seguiranno nuove iniziative e proposte di attivazione. Vi invitiamo a rimanere in contatto con noi, a farci arrivare le vostre reazioni e le vostre proposte, scrivendoci ad associazione@ciaconlus.org.
Perché la tutela dei diritti dei migranti è la tutela dei diritti dell’intera comunità.
L’inganno dell’emergenza
I campi, le tende, i container, non sono compatibili con la vera accoglienza e con i diritti. Non serve essere dei tecnici del settore per capire che nei campi di grandi dimensioni le condizioni non sono minimamente vivibili né compatibili con la dignità delle persone.
Indipendentemente dall’impegno di operatori e volontari, proliferano condizioni di abbandono, esposizione allo sfruttamento sessuale e lavorativo, rischi sanitari, tensione con le comunità locali. Grandi concentrazioni, condizioni igienico-sanitarie complesse, assenza di prospettive, sovraffollamento, promiscuità giocano un ruolo decisivo.
L’istituzione sistematica di campi è il frutto avvelenato della volontà politica del governo di dissolvere il sistema di accoglienza pubblico e di attaccare brutalmente il diritto d’asilo.
In queste settimane stiamo assistendo a un pericolosissimo scivolamento nel baratro della violazione dei più fondamentali diritti.
Non solo quello d’asilo ma anche quelli della libertà, della salute e dell’incolumità. Su tutto: dell’essere riconosciuti come persone con il diritto di essere “visti”, se non già come titolari di una qualche forma di protezione, come soggetti di quegli inviolabili e incomprimibili diritti di habeas corpus che in nessun caso, in nome di nessuna presunta emergenza, possono essere negati.
Siamo davvero di fronte a un’emergenza?
Proprio da qui è necessario partire. Nel torpore generale solo in parte giustificabile dal periodo estivo sembra prevalere tra tutti gli attori politici un discorso che in realtà poggia su una errata – o quantomeno parziale – lettura dei dati: si evoca continuamente l’“emergenza”, variamente declinata come “emergenza sbarchi”, “emergenza migranti” o simili espressioni, in nome della quale qualsiasi soluzione straordinaria e in deroga ai diritti e alle procedure ordinarie sarebbe legittima.
“Sbarchi più che raddoppiati”, “Comuni allo stremo”, “Superata la soglia di 100.000 arrivi”, “Prefetti costretti a soluzioni di emergenza in palestre, tende e scuole”. Sembrano argomenti che si sostengono da soli, con una logica autoevidente che non ha bisogno di ulteriori specifiche. I diversi accenti possono riguardare le critiche “da destra” (o meglio dalla Lega) per non aver mantenuto abbastanza le promesse elettorali – ovvero fermare gli sbarchi – o “da sinistra” per non dare abbastanza risorse e poteri, soprattutto a sindaci e comuni, per gestire meglio la crisi, rivendicando un governo locale che facilmente si tradurrebbe in una scelta di accogliere meno (forse “meglio”, ma sicuramente “meno”…).
Ma nessuno sembra mettere in questione che ci troviamo davanti a una situazione di emergenza che nell’immediato andrebbe gestita con misure straordinarie, fuori dai sistemi esistenti, e che in futuro può risolversi solo con un maggior controllo dei cosiddetti “flussi non programmati”. Leggasi: più accordi bilaterali con i paesi di origine e transito, più respingimenti, più procedure accelerate, più rimpatri.
Ma è davvero così? Proviamo a smontare questa argomentazione tautologica.
I numeri
Si evoca un’emergenza quando i numeri stessi non sono certi, né tanto meno pubblici. Il Ministero colpevolmente non comunica nemmeno più il numero degli arrivi, rendendo impossibile ogni presidio civico e ogni dibattito fondato su dati certi. Quanti posti servirebbero? Quanti quelli liberi? Quante persone in attesa? Quanti gli arrivi previsti?
Ciò che invece sappiamo per certo è che l’accoglienza pubblica è da sempre sistematicamente sottodimensionata: complessivamente conta su poco più di 100mila posti, circa 30mila nel SAI (Sistema d’asilo e d’accoglienza) e 80mila nei CAS (Centri di accoglienza straordinaria), in un paese di 60 milioni di abitanti, con più di 8000 comuni. Meno della maggior parte degli Stati europei.
Viene il legittimo sospetto che questa presunta emergenza sia voluta, perseguita e mantenuta, a giustificazione di politiche e pratiche opache e lesive dei diritti.
A riprova di ciò, non c’è nessuna intenzione dichiarata di aumentare la capienza del sistema pubblico e ordinario. Se sentiamo dire, anche a Parma, che i campi sono rigorosamente temporanei, si deve legittimamente supporre che la necessità di istituirli verrà superata trovando soluzioni non transitorie, e quindi ordinarie, organizzando – finalmente – l’accoglienza futura. Altrimenti come si svuoteranno i campi?
Curioso che nel paragone con l’anno scorso ci si sia già dimenticati dell’arrivo, in pochissimi mesi di circa 178mila profughi ucraini. E alla luce di questo dato dovremmo dire che i 103mila arrivi di quest’anno – portati come giustificazione dell’emergenza - sono nettamente meno dei quasi 230mila dell’anno scorso, dato che somma gli ucraini e gli arrivi via mare
Il vero tema è la gestione, non i numeri. Il modo in cui si provvede (o non si provvede) al repentino riconoscimento dei diritti individuali delle persone – a essere identificate, a essere informate e orientate, a essere tutelate nella propria salute, a ricevere idonea accoglienza e assistenza – e, in stretta connessione con il punto precedente, a individuare le procedure, i soggetti, le risorse necessarie per rendere esigibili tali diritti. Il più possibile senza stravolgere e derogare ai sistemi ordinari che faticosamente (e non senza contraddizioni) sono già deputati a gestire lo stesso fenomeno.
Il governo del fenomeno
Se non si prevede e organizza una “via di uscita”, i campi non costituiscono una soluzione provvisoria, quanto piuttosto il modello scelto dal governo per sostituire definitivamente l’accoglienza strutturata.
Segregare i rifugiati dal corpo sociale e abbandonare persone e territori a loro stessi, come già era accaduto con i Decreti Salvini e durante la pandemia.
Delle due l’una, infatti: o le persone svaniscono o i campi rimarranno.
Nonostante i proclami, i rimpatri non possono essere effettuati; gli arrivi continuano, non ci sono stati né blocchi navali, né sta funzionando la brutale deterrenza dei mancati soccorsi in mare, se non rendendo sempre più pericolose e costose le rotte migratorie.
Cambiano i governi e i ministri italiani, ma i rifugiati continuano a fuggire e qualcuno, con enormi sofferenze, ad arrivare: del resto, il mondo è in fiamme per guerre, disuguaglianze, persecuzioni, cambiamenti climatici.
Ma di fronte a questo non c’è nessun progetto, nessun programma, nessuna previsione. C’è la sola, bieca strumentalizzazione politica della situazione. Sulla pelle di chi non ha voce, di chi è deprivato dei propri diritti, di chi fugge per la vita, la libertà, la pace.
Troppo lunga e impietosa sarebbe un’analisi precisa e circostanziata di cosa non ha funzionato in più di vent’anni di (mancato) governo dell’asilo, della protezione e dell’accoglienza. Ma qualche raro momento di lucidità c’è stato, quanto si è partiti dal tentativo di risolvere una contraddizione intrinseca al fenomeno dell’asilo.
Ciascun individuo ha il diritto soggettivo perfetto a chiedere protezione (significa che non si può a priori decidere chi ne è titolare, sulla base per esempio del paese di origine o di altre caratteristiche) e nessuno può essere punito per il semplice arrivo irregolare sul territorio (lo stabilisce la Convenzione di Ginevra): da ciò consegue che nel sistema attuale – in cui sono chiuse tutte le vie legali di accesso - i flussi di richiedenti asilo sono effettivamente flussi non programmati.
Non possiamo stabilire a priori delle quote o una capienza del sistema di asilo (vale per la procedura di riconoscimento dello status e ancor più per il sistema di accoglienza). Ancora una volta il caso dell’Ucraina è paradigmatico: sarebbe stato possibile prevedere l’arrivo di quasi 180mila persone?
Questa consapevolezza comporta che, a differenza di altre politiche pubbliche (pensiamo alla scuola o alla sanità), non è possibile prevedere con esattezza quante persone arriveranno, né quante avranno bisogno di assistenza e tutela. È necessario, pertanto, un sistema flessibile e modulare, che si adatti a queste variazioni, e non viceversa.
Ovvero non è pensabile che delle persone vengano escluse – dal territorio, dall’accoglienza o persino dal riconoscimento come “persone”, come vedremo tra poco – per il solo fatto che non vi è un governo strategico del fenomeno.
Tuttavia, proprio perché è vero che non si può sapere con precisione quante persone arriveranno, i sistemi di previsione, studio e ricerca sul fenomeno devono farsi sempre più accurati e precisi. Predisponendo nel frattempo un sistema che si basi su ipotesi verosimili relative alla capienza e che su queste si calibri.
Richiamavamo poco fa un precedente controcorrente. A luglio del 2014 – in un frangente simile a quello che stiamo vivendo quest’estate in termini di numeri e tendenze - con il “Piano operativo nazionale per fronteggiare il flusso straordinario di cittadini extracomunitari” si prendeva atto che era necessario operare su due piani contemporanei, coniugando da un lato la necessità di dare risposte immediate alle impellenti esigenze di accoglienza delle persone che arrivano […]e dall’altro l’assoluta e indifferibile necessità di impostare subito un piano strutturato che permetta di ricondurre a gestione ordinaria e programmabile gli interventi relativi sia agli adulti che ai minori non accompagnati. I due piani devono essere perseguiti contemporaneamente e coerentemente.
Da questo conseguiva il mandato al coordinamento nazionale di elaborare un programma strutturato che in modo permanente e tenuto conto delle indicazioni fornite dai tavoli regionali, si facesse promotore degli interventi necessari, dal momento che la gestione dell’accoglienza, tramite le Prefetture e senza il coinvolgimento dei territori, rischia di creare disagi.
Invertire la rotta
E oggi? Si potrebbe obiettare che ci troviamo in una situazione in cui tale programmazione non è stata effettuata e pertanto è necessario ricorrere ai ripari. Ecco, questo è il pericolo principale: che di emergenza in emergenza – vera o presunta – si perda l’occasione per mettere dei punti fermi nell’analisi e nella pratica politica dei passi necessari per invertire la rotta.
Per questo anche di fronte alle sirene d’allarme dell’emergenza è necessario dare seguito a quell’invocazione del 2014 a perseguire contemporaneamente e coerentemente i piani dell’urgenza e della programmazione e ripartire da alcuni punti fermi irrinunciabili.
- Il diritto alla vita
Avete provato a trascorrere più di qualche ora in un container sotto il sole cocente a 50 gradi, senza ombra né refrigerio, magari con un neonato o altri individui fragili? Non accade in un altrove lontano, a Lampedusa o in un qualche campo profughi africano. Accade qui e ora.
Prima ancora di parlare di asilo, va ribadito con forza che nessun governo, tanto meno di un paese democratico, può perseguire delle politiche che mettono direttamente a rischio la vita delle persone.
Questo diritto oggi non viene rispettato.
Viene spontaneo pensare a quanto accade in mare, con i mancati soccorsi e con gli sbarchi differiti, ma riguarda anche ciò che avviene una volta approdati in Italia. Le condizioni stesse di vita e di esistenza all’interno di certi centri mettono in pericolo la salute e talvolta la sopravvivenza stessa delle persone, per lo più lontano dagli sguardi degli enti di tutela e dei soggetti pubblici (sanitari e amministrativi) locali. Trapela solo qualche immagine del sovraffollamento di Lampedusa e ci si illude che riguardi solo quel luogo “tradizionalmente” simbolo dell’emergenza: ma non è così.
Sappiamo che ciò accade anche a Parma e chissà in quanti altri luoghi d’Italia di cui non si è nemmeno a conoscenza.
- I diritti delle persone vulnerabili
Situazioni di promiscuità in cui minori non accompagnati vivono insieme ad adulti, singoli e nuclei, potenziali vittime di tratta e sfruttamento, nuclei familiari e monogenitoriali, senza nessuna chiara procedura di presa in carico. Il rischio concreto e reiterato di esposizione a violenza, tratta, ritraumatizzazione. Fuori da ogni controllo e tutela.
In nome dell’emergenza sono saltati anche i più basilari criteri di tutela quanto meno delle persone più fragili. Siamo certi e convinti che maggiori standard di tutela andrebbero riconosciuti a tutti – tanto più se si considerano le condizioni di vita nei paesi di transito, la detenzione e le violenze subite dai più, le modalità di viaggio e i traumi ricorrenti riscontrati nella stragrande maggioranza delle persone che arrivano - ma anche rimanendo alle categorie insindacabilmente riconosciute come titolari di diritti ulteriori in quanto vulnerabili riscontriamo violazioni sistematiche.
Non più tardi di giugno di quest’anno il Ministero dell’interno pubblicava un “Vademecum per la rilevazione, il referral e la presa in carico delle persone portatrici di vulnerabilità in arrivo sul territorio e inserite nel sistema di protezione e accoglienza”, dove venivano prioritariamente considerate le vittime di tratta, i minori e coloro che ne hanno cura, le persone sopravvissute a violenza di genere, le persone discriminate in base all’orientamento sessuale, le persone con disabilità, con particolare priorità ai soggetti in emergenza sanitaria.
Oltre a descrivere ed elencare gli attori coinvolti (e i loro ruoli) e le sequenze operative da mettere in campo a tutela dei soggetti vulnerabili, vengono anche enunciati dei principi generali, tra cui il riconoscimento che il processo di individuazione ed emersione delle vulnerabilità è da considerarsi quale attività che accompagna la persona in tutte le fasi del sistema di soccorso e accoglienza.
Nessuna esclusa.
Possiamo dire che 100 pagine di Vademecum risultano già ampiamente disattese, così come la previsione mantenuta anche dal cosiddetto Decreto Cutro (oggi legge n. 50/2023) di facilitare l’accesso dei richiedenti asilo vulnerabili al Sai, riconoscendo implicitamente che il livello di servizi e di tutela offerti negli altri centri non sarebbe adeguato.
Di nuovo: questo succede anche a Parma.
- Il diritto a essere riconosciuti come persone
Chi si trova dentro questi centri è invisibile alle istituzioni, ai cittadini, agli enti di tutela, ma perfettamente visibile agli sfruttatori, ai trafficanti, ai tanti broker interessati a una fetta di torta avvelenata, che già affollano i dintorni di questi centri: aperti alla fuga, porosi alla criminalità, ma chiusi al presidio civico e legale di potrebbe esercitare funzioni di tutela e protezione.
Questo accade anche a Parma.
I centri di cui stiamo parlando sono di fatto dei “buchi neri” del diritto e all’interno vi soggiornano delle non-persone.
È difficile ricostruire un quadro preciso e circostanziato di ciò che accade in questi centri, perché talvolta si apprende della loro esistenza solo attraverso indiscrezioni, fuoriuscite di notizie, dichiarazioni stampa.
Siamo ben oltre i tempi dei Cas (Centri di accoglienza straordinaria), criticati tra l’altro per il non adeguato livello di servizi e per la frequente scarsa trasparenza nella gestione, sono abbondantemente superati: ora, poco si sa dei cosiddetti “centri di transito” e ancor meno di chi c’è al loro interno.
Dagli sbarchi in poi non c’è una procedura che permetta l’identificazione dei migranti. Sappiamo bene che l’identificazione può rappresentare uno strumento di controllo (rilevamento delle impronte, inserimento in Eurodac, limitazione alla mobilità intraeuropea), ma è anche il primo e fondamentale mezzo attraverso cui al migrante viene riconosciuto un nome, un’età, un genere, viene visto come persona portatrice di diritti fondamentali, come abbiamo descritto ai punti precedenti.
Come è possibile riconoscere il diritto alla vita e all’incolumità se non vediamo innanzitutto chi sono i soggetti di cui parliamo? Come identificare le vulnerabilità se non sappiamo nemmeno di chi stiamo parlando?
C’è un’invisibilità totale, forse nella malcelata speranza che le persone non identificate si diano alla macchia, spariscano, sgonfino quei numeri dell’emergenza.
- Il diritto d’asilo
Viene per ultimo non perché sia meno importante o perché sia meno calpestato, ma perché non ha nemmeno senso nominarlo quando sono così sistematicamente violati tutti gli altri diritti.
Quale difesa del diritto d’asilo può essere sostenuta se non sono possibili nemmeno i più basilari presìdi dei diritti fondamentali della persona?
Non dobbiamo mai dimenticare che il diritto soggettivo all’asilo è un diritto perfetto e incomprimibile, da cui discendono dei doveri per lo Stato in cui la persona ritiene di voler chiedere protezione.
Innanzitutto, il dovere di informare e orientare in modo preciso e comprensibile, anche attraverso operatori legali e mediatori linguistici e culturali, con attenzione e sensibilità alle diversità (di età, genere, religiosa, culturale ecc).
Il dovere di garantire l’accesso a un processo di determinazione dello status che sia equo, rispettoso, certo e controllabile, anche attraverso i previsti meccanismi di ricorso.
Il dovere – ultimo ma non ultimo – di far corrispondere alla procedura di asilo adeguati standard di accoglienza per tutte le persone che non hanno adeguati mezzi di sussistenza propri (e con questo ci ricolleghiamo ai punti precedenti).
L’accoglienza insomma non è un “di più”, una concessione, un’opera caritatevole concessa magnanimamente da Stati generosi, solo nella misura e nei numeri in cui sarebbe possibile secondo un qualche criterio di “capienza” o di “opportunità”.
Quale accoglienza per quale tutela
L’accoglienza non è un fine in sé, accogliere per accogliere (magari per arricchire qualche gestore senza scrupoli, come propaganda una certa vulgata, non sempre a torto), ma lo strumento attraverso cui, a certe precise condizioni, si rendono realmente esigibili tutti i diritti sopraelencati.
L’accoglienza va rivendicata come diritto fondamentale in quanto “porta di accesso” e presidio di legalità – per tutti e tutte - verso gli altri diritti. Solo a queste condizioni l’accoglienza è davvero tale e non un surrogato apparentemente umanitario e caritatevole, utile solo a tacitare qualche coscienza.
Accogliere significa garantire equità e accesso ai servizi territoriali. Eppure, tutta la filiera prefettizia prende in considerazione solo i migranti che sbarcano e che dai porti vengono distribuiti e trasferiti. Chi entra via terra, non accede né alla domanda d’asilo né all’accoglienza. Da più di un anno Ciac vede richiedenti asilo afghani, pakistani, bangladesi davanti ai propri uffici, in strada, con il caldo dell’estate e con il freddo dell’inverno.
Per loro non c’è “emergenza”, per loro non c’è tetto, non c’è Cas e non c’è campo profughi. Ricordiamo che una quindicina di loro, supportati da Ciac, hanno fatto ricorso contro lo Stato Italiano, ottenendo ragione in tribunale, con una sentenza definita storica dal senatore Manconi. Le istituzioni non hanno però rispettato contenuti e tempi dell’ordinanza, anche quando c’erano i posti vuoti.
Per molti, troppi, l’unica risposta continua a essere la strada. E c’è motivo di credere che proprio la strada sarà l’unica “via d’uscita” anche per coloro che oggi arrivano nei campi e nelle tendopoli: quanti vedranno riconosciuto il proprio diritto all’accoglienza e alla protezione? Il Decreto “Cutro”, dati provinciali alla mano, ha già più che raddoppiato la marginalità, aumentato la ricattabilità sociale e contribuito a lavoro nero e sfruttamento.
E se la richiesta implicita - e in alcuni casi addirittura un malcelato ricatto - impone di “accogliere senza tutelare”, noi ci sentiamo di rovesciare l’ordine delle priorità. Rifiutiamo la logica dei Cas, così come rifiutiamo quella dei campi di transito. I Cas non sono l’alternativa.
Se i bandi di gara per la loro gestione, pubblicati dalla Prefettura, sono andati deserti, è perché già da anni enti di tutela e associazioni rifiutano un capitolato ministeriale punitivo, che non rispetta gli standard minimi della normativa europea.
Non è quindi una questione economica, come si sente dire. Piuttosto, è una questione etica e politica: per gli enti di tutela è inaccettabile diventare i controllori dei richiedenti, invece che tutelarli.
Per contro, è necessario “accogliere per tutelare” e, qualora ciò venisse impedito dalle istituzioni preposte, ecco che l’urgenza assoluta e prioritaria diventa quella di “tutelare”, anche se ciò dovesse comportare rimanere fuori dall’inganno di un’accoglienza che non protegge ma anzi isola, invisibilizza e in un’ultima istanza abbandona i corpi – non già soggetti - senza diritti e senza voce.
Le alternative ci sono, già adesso
Ciac, in qualità di ente di tutela e promotore dell’accoglienza integrata e diffusa, non si sottrae alle sue responsabilità. Senza interrompere i servizi ordinari, siamo intervenuti, in modo professionale e indipendente, con operatori legali, socio-sanitari e mediatori all’interno dei campi, per garantire supporto ai medici dell’Ausl, orientamento giuridico e un accesso informato alla procedura d’asilo, l’unica via oggi per essere regolarizzati, per non diventare invisibili e ricattabili.
La nostra presenza, terza e indipendente è anche una garanzia per tutta la comunità.
Ma è urgente e necessario un cambio di rotta, che interpelli tanti e diversi attori territoriali.
Molti comuni della nostra provincia, economicamente floridi e con ottime possibile di integrazione, non hanno mai accolto. Anche questo ha impedito che l’accoglienza diffusa si facesse sistema.
Sottraendosi al sistema pubblico, spesso per un mero calcolo elettorale, la promessa dell’accoglienza diffusa – ovvero di evitare grandi concentrazioni problematiche e di facilitare il precoce contatto tra cittadini stranieri e autoctoni – non può essere mantenuta e le concentrazioni si creano comunque.
La logica dei campi per alcuni e della strada per molti trova una impropria legittimazione nel fatto che molti Comuni, da anni, non hanno mai aderito al sistema pubblico (ieri SPRAR, oggi SAI). E corrisponde a verità che molti Comuni non abbiano risposto alle sollecitazioni di enti di tutela e anche, ultimamente, va riconosciuto, alle richieste di disponibilità di alcuni Prefetti, tra cui quello di Parma.
A livello nazionale solo poche centinaia di Comuni promuovono un progetto SAI. Nella nostra provincia, ad esempio, sono una netta minoranza i comuni che ospitano appartamenti del sistema di accoglienza.
Ed è doloroso rilevare che lo stesso Anci, l’associazione dei Comuni, ha difeso l’adesione volontaria dei Comuni. È come se i Comuni potessero decidere se avere o non avere scuole, servizi sociali, servizi per anziani, disabili, minori. La scelta di molti Comuni di non assumersi nessuna responsabilità ha danneggiato tutti. Infatti, dove ci sono progetti strutturati di accoglienza, c’è dialogo, sviluppo (anche economico dei territori), lavoro e dignità.
L’accoglienza, fuori da ogni emergenza, deve diventare finalmente attività ordinaria, tramite trasferimento delle competenze (e delle risorse) agli enti locali. La reiterata incompetenza del Ministero degli interni non che confermare questa necessità.
Urge una riforma che superi definitivamente l’adesione volontaria di questi ultimi, per la creazione di un effettivo sistema unico e capillare.
Riprendendo il Piano del 2014 rivendichiamo la programmazione a regime di un sistema di accoglienza con una capienza di circa 200mila posti.
E il ritorno a un sistema unico di protezione e accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, cui accedere immediatamente dopo le procedure di identificazione e di prima assistenza allo sbarco.
Esiste un altro modo di governare l’asilo e l’accoglienza.
Per questo, ci rivolgiamo a tutte le amministrazioni comunali e a tutti gli schieramenti politici: urge una presa di posizione unitaria. Anche se il governo non ha previsto alcun ampliamento dell’accoglienza pubblica, se si vogliono evitare campi oggi e nel prossimo futuro, bisogna potenziare l’accoglienza integrata e diffusa.
Va elaborato un piano provinciale, con criteri condivisi (numero di abitanti, possibilità di occupazione, presenza di servizi), da sottoporre al governo e al ministero, chiedendo un ampliamento dell’accoglienza integrata e diffusa.
In questo frangente anche i cittadini e le cittadine, la società civile tutta, hanno una responsabilità irrimandabile. Tocca a ciascuno e ciascuna di noi, ognuno nella posizione individuale e collettiva che ricopre, far sentire alle istituzioni la pressione di chi pensa che una comunità interculturale e accogliente possa essere più sicura e coesa di una comunità fondata sulla paura e sui muri.
E tocca a ciascuno e ciascuna di noi far sentire ai migranti e a chi sta al loro fianco che non sono soli e invisibili.
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