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Rifugiati-cittadini? Partecipazione e responsabilità durante il Covid e oltre

Pubblichiamo l'approfondimento di Chiara Marchetti (Responsabile Area Progettazione, ricerca e comunicazione di Ciac), dal titolo "Rifugiati-cittadini? Partecipazione e responsabilità durante il Covid e oltre" contenuto nel volume "Il Diritto d’asilo – Report 2020. Costretti a fuggire… ancora respinti", di Fondazione Migrantes.

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il diritto d'asilo

Pubblichiamo l'approfondimento di Chiara Marchetti (Responsabile Area Progettazione, ricerca e comunicazione di Ciac), dal titolo "Rifugiati-cittadini? Partecipazione e responsabilità durante il Covid e oltre" contenuto nel volume "Il Diritto d’asilo – Report 2020. Costretti a fuggire… ancora respinti", di Fondazione Migrantes. E' possibile scaricare l'intero volume CLICCANDO QUI




Rifugiati-cittadini? Partecipazione e responsabilità durante il Covid e oltre

Chiara Marchetti, CIAC

1. Cittadinanza formale e cittadinanza “pratica”
Tra tutte le diverse categorie in cui i migranti sono più o meno sensatamente suddivisi dagli Stati, i rifugiati sono quelli che allo stesso tempo più si allontanano e più si avvicinano ai cittadini. Vi si allontanano, perché sono i fuori-posto (dis-placed), coloro che hanno reciso il legame apparentemente naturale con la propria patria e si presentano inermi a una possibile comunità di accoglienza, l’incarnazione dei “diritti umani” (ovvero dei non-cittadini) per eccellenza. Questa condizione è intrinsecamente collegata al loro “impossibile ritorno”, impossibilità che è al contempo un’imposizione giuridica (rifugiato è proprio colui/colei che non può godere della protezione del suo Paese di origine: se ritornasse a casa, perderebbe contestualmente lo status ottenuto nel Paese di asilo) e un sentimento emotivo e sociale: come constatava amaramente il sociologo algerino Abdelmalek Sayad, «il ritorno è naturalmente il desiderio e il sogno di tutti gli immigrati, per loro è come recuperare la vista, la luce che manca al cieco, ma, come lui, sanno che è un’operazione impossibile. Non resta che rifugiarsi in un’implacabile nostalgia» .
D’altra parte, però, i rifugiati si avvicinano ai cittadini, perché - proprio per l’assolutezza della loro perdita originaria - dovrebbero godere di una protezione particolare da parte delle comunità politiche di accoglienza che, una volta accettato il non-ritorno del rifugiato, si dovrebbero impegnare e a concedergli una nuova cittadinanza o, quantomeno, i diritti che tradizionalmente sono stati ad essa correlati. Possiamo certamente dire, a fronte delle tragiche pratiche attuate negli ultimi anni anche da parte di quei Paesi europei che dovrebbero rappresentare il baluardo dei diritti umani, è più realistico rilevare che gli Stati di asilo tendono piuttosto a tutelarsi dalla presenza di figure che minacciano il loro stesso fondamento socio-politico (sono inquietanti e difficili da assorbire per le nostre comunità politiche, perché «spezzando la continuità tra uomo e cittadino, essi mettono in crisi la finzione originaria della sovranità moderna» ), rifugiandosi nella pavida scappatoia del “rimpatrio”: come affermava profeticamente Hannah Arendt nell’immediato dopoguerra, «il mancato riconoscimento dell’apolidicità significa in ogni caso il rimpatrio, cioè il rinvio a un paese d’origine che si rifiuta di accettare il rimpatriato come cittadino o, al contrario, lo vuole urgentemente al ritorno per punirlo» . La strategia del “rimpatrio”, evocata da Arendt, ha nel tempo assunto forme più subdole: lo strumentale contrasto dell’“immigrazione irregolare” come alibi per l’esternalizzazione, gli accordi bilaterali con Paesi di origine e di transito, le riammissioni a catena . Ma la sostanza cambia poco. 
Sembra tuttavia che questi tentativi di rimuovere un riconoscimento pieno e compiuto del diritto di asilo riveli a contrario proprio la pregnanza del nesso rifugiato-cittadino: si cerca di prenderne le distanze, di ridurne la portata (a monte, non facendo entrare potenziali candidati, o a valle, svuotando di senso l’asilo e abrogando intere fattispecie della protezione, come è avvenuto con i decreti immigrazione e sicurezza nel 2018), proprio perché consapevoli della sacralità di un diritto che – una volta concesso – tende a elevare il migrante a uno status comparabile a quello del cittadino. Non a caso, sono numerosi i casi in cui anche la legislazione nazionale ha precisato che i rifugiati (e per estensione tutti i titolari di protezione internazionale) devono a tutti gli effetti godere del medesimo trattamento previsto per i cittadini italiani: questo vale per esempio in materia di lavoro e occupazione, financo all’accesso al pubblico impiego, e anche in materia di assistenza sanitaria e sociale; a rimanere esclusi sono i diritti politici, in particolare quello di voto. Allo stesso tempo, gli stessi rifugiati sono la categoria tra i migranti che può accedere con particolare “vantaggio” anche alla cittadinanza vera e propria, cinque anni dopo il riconoscimento a differenza dei dieci dei lungo soggiornanti per altre ragioni.
Ma il taglio con cui voglio affrontare il nesso tra rifugiati e cittadinanza non si riduce alla sola dimensione formale, in primis dell’acquisizione dello status di rifugiato e successivamente della cittadinanza “di carta”. In realtà sono più interessata a leggere le pratiche di cittadinanza messe in atto dai rifugiati (così come certamente da molti altri migranti) a prescindere e al di là del riconoscimento che viene loro dall’alto delle istituzioni. Cò non significa sminuire l’importanza dei documenti e dei diritti ad essi connessi, ma piuttosto ampliare lo sguardo verso una concezione “pratica” della cittadinanza, che mette al centro una piena ed effettiva partecipazione alla vita sociale, elemento che dovrebbe essere imprescindibile anche per i “vecchi” cittadini. In questo senso, l’invito è a tornare a discutere e praticare la cittadinanza, in particolare quella sociale, riscoprendo il suo significato profondo che non è tanto connesso all’appartenenza alla comunità nazionale, quanto al praticare questo legame. E ciò avviene – per rifugiati e cittadini - non tanto attraverso l’identità comunitaria, ma attraverso l’attività pubblica. Come ci ricordava già diversi anni fa Giovanna Procacci, infatti, «tutta la cittadinanza sociale si è, sì, sviluppata sotto l’egida dello stato nazionale, ma in relativa indipendenza dal legame di nazionalità: i criteri di attribuzione dei diritti sociali sono stati identificati in aggregazioni collettive, pubbliche o private, ma sempre più delimitate dello stato» . L’attivazione degli stessi “rifugiati” in pratiche e rivendicazioni di cittadinanza sociale, così come la partecipazione dei cittadini autoctoni alla rifondazione del sistema di asilo e il loro diretto coinvolgimento in relazioni interculturali significative , sembrano oggi la sfida più ambiziosa, e allo stesso tempo più urgente e necessaria, non solo per dare pieno significato alla protezione dei rifugiati ma anche per rifondare le nostre comunità. Consapevoli che spesso non sono solo i rifugiati a essere e sentirsi esclusi, ma anche i cittadini tutti gli effetti, che si sentono sempre meno di “appartenere”: «Milioni di persone sono privati di diritti poiché non possono divenire cittadini nel paese in cui risiedono. Ancora più numerosi, tuttavia, sono coloro che hanno lo status formale di membri dello Stato nazionale ma mancano di molti dei diritti che si è soliti pensare discendano da questa condizione. […] Ci sono sempre più cittadini che non appartengono, e questa circostanza mina a sua volta la base dello Stato nazionale come luogo centrale della democrazia» . Si tratterebbe quindi – per usare le parole di Balibar – di indurre tutti, compresi gli “autoctoni”, a «rimettere in gioco, almeno simbolicamente, la loro identità civica acquisita, ereditata dal passato, e ricostruirla nel presente con tutti gli altri, con tutti coloro – quale ne sia l’origine, l’anzianità, la “legittimità” - che condividono oggi uno stesso “destino” in un angolo della terra. […] Non esistono “primi occupanti” del territorio inteso come spazio civico». 
Se si assume questo sguardo più ampio, si può scoprire che le “pratiche di cittadinanza”  agite e rivendicate dai rifugiati spesso precedono e addirittura superano qualsiasi nesso o dipendenza dal riconoscimento formale, allo stesso modo in cui i giovani di seconda generazione non attendono di acquisire finalmente e dopo mille ostacoli la cittadinanza italiana per “sentirsi” e “fare” gli italiani. Inoltre, come già mostrato ancora una volta in ricerche relative alle seconde generazioni in Italia , la dimensione della partecipazione diretta alla vita pubblica e sociale del Paese in cui si vive mette al centro le pratiche quotidiane che si possono svolgere insieme ad altri coabitanti (o diremmo meglio, coerentemente con questa interpretazione: concittadini), riconfigurando il senso stesso della “comunità di appartenenza” in una direzione più trasversale, flessibile, intersezionale. Per sentirsi ed essere cittadini, quindi, non sarebbe necessario – come pretendeva una vecchia concezione monolitica ed esclusiva della cittadinanza nazionale - che i rifugiati scegliessero una volta per tutta di sentirsi solo e veramente italiani, recidendo ogni legame e identificazione con la comunità di origine o altre comunità di elezione; varrebbero molto di più la partecipazione, il senso di appartenenza anche su base locale, la dedizione e la cura per i luoghi che si abitano e frequentano, la costruzione di legami di prossimità e solidarietà con i vicini, già noti o ancora – e solo provvisoriamente – estranei .

2. Volontariato coatto vs. partecipazione 
Il fatto di focalizzarsi sulle forme di partecipazione e sulle pratiche di cittadinanza dei rifugiati non ci deve indurre a confonderle con i tanti esempi di volontariato condizionato e talvolta coatto a cui sono stati sottoposti richiedenti asilo e rifugiati negli ultimi anni. Ben diverso infatti è il caso in cui sono le istituzioni pubbliche - e in diverse situazioni anche i soggetti del privato sociale impegnati nel sistema di accoglienza - a proporre in modo pressante o addirittura a imporre ai migranti accolti di “restituire” quanto ricevuto in termini di servizi attraverso azioni, attività e disponibilità a quello che spesso si configura più come lavoro gratuito che come volontariato spontaneo. 
Questo costume si è diffuso in modo pervasivo soprattutto in seguito alla cosiddetta “crisi dei rifugiati”, tra il 2015 e il 2018, quando anche in Italia si è particolarmente diffuso un approccio che, se pur con accenti diversi, spostava il tema dell’asilo e dell’accoglienza dal regime del diritto a quello del merito. In questa cornice, perdevano via via rilevanza le ragioni della fuga e la titolarità di diritti connessi, senza ulteriore pregiudizio, alla condizione di richiedente asilo e successivamente di titolare di protezione, mentre si affermavano come condizioni per essere accettati socialmente (e persino giuridicamente) buoni comportamenti, dimostrazioni di buona volontà e gratitudine, accondiscendenza a forme più o meno impegnative e/o umilianti di “volontariato”, intesi come prove di un presunto merito guadagnato sul campo e della volontà di entrare a far parte di una “comunità di valori” più che di una comunità di diritto .
Così come l’importanza del documento (attestante lo status di rifugiato e/o l’acquisizione della nuova cittadinanza) non è riducibile alla sola strumentalità – che pure sarebbe comprensibile e legittima – connessa a maggiori vantaggi e diritti, allo stesso modo la scelta della partecipazione e di atteggiamenti solidaristici e prosociali non è quasi mai riconducibile a un mero calcolo del tornaconto personale, ma nemmeno a una sorta di fredda “restituzione” di quanto ricevuto. I comportamenti sociali, e quelli dei rifugiati non fanno eccezione, non sono quasi mai frutto di strategie meramente calcolatorie, in cui si valuta a tavolino quanto si è ricevuto e quanto si dovrebbe dare indietro per pareggiare i conti. Lungi dall’essere attori razionali che cercano un bilancio in pari o addirittura un guadagno, i rifugiati - come tutti gli altri esseri umani del resto - sono mossi da un intreccio di motivazioni, sentimenti, legami, vincoli e aspirazioni che compongono intrecci originali e difficilmente riducibili a dimensioni unidimensionali di causa-effetto che spiegano in modo univoco i singoli comportamenti. Può essere comunque utile presentare brevemente alcune delle diverse forme di partecipazione spontanea, più o meno organizzata, che in questi anni di ricerca e lavoro sociale in Italia mi è capitato di incontrare.

2.1 Protagonismo in associazioni di rifugiati
Si tratta della forma più riconoscibile e allo stesso tempo più recente di attivismo dei rifugiati in Italia. Se in altri contesti (si pensi ad esempio alle diverse Refugee-Led Organisations (RLOS) in numerosi Paesi europei  o alle Refugee Community Organizations nel Regno Unito e al loro ruolo legittimato e persino sostenuto dalle istituzioni nazionali, alla ricerca di interlocutori precisi e in qualche modo rappresentativi della totalità dei rifugiati ) si sono affermate da tempo, anche grazie a una più lunga storia di migrazioni per asilo e alla presenza di un numero più circoscritto di comunità nazionali di rifugiati ad elevata numerosità, in Italia la presenza di associazioni o altri attori composti in modo esclusivo o prevalente da rifugiati è assai più nuova. In alcuni casi singoli gruppi nazionali si sono associati già da tempo, ma senza un esplicito riferimento alla questione dell’asilo e senza una volontà dichiarata di diventare interlocutori pubblici in quanto portatori di specifici interessi o necessità. Oltretutto si è trattato in molti casi di realtà informali, per lo più su base locale: non per questo meno forti o significative ma certamente destinate (per scelta propria o altrui) a rimanere ai margini del dibattito pubblico e delle sedi istituzionali in cui pure si prendevano decisioni con un forte impatto sulle stesse esistenze, presenti o future, dei loro membri e degli altri rifugiati. 
Più recentemente anche in Italia realtà di questo tipo si stanno moltiplicando. Come rilevato da un recente rapporto sulle organizzazioni di rifugiati in Italia , si tratta nella maggioranza dei casi di associazioni e soggetti fondati e guidati da rifugiati che sono in Italia da più di 5 anni e che di solito hanno un forte legame con la comunità locale. Tra le attività di queste associazioni, spesso ci sono azioni di advocacy in materia di asilo, iniziative per l’inclusione sociale e la partecipazione dei rifugiati, tutte attività che mostrano un attivismo “dei rifugiati per i rifugiati”. Ma numerose sono anche le nuove realtà, promosse da rifugiati che sono in Italia da meno di 5 anni. Si tratta in questo secondo caso di associazioni che nascono su impulso di esperienza particolarmente virtuose di accoglienza diffusa e/o grazie al supporto di programmi dedicati. 
Si pensi in particolare a PartecipAzione, promosso da UNHCR e INTERSOS, un programma che si fonda sulla promozione dei diritti umani, incluso il diritto di tutte le persone a partecipare nei processi e nelle decisioni che hanno un impatto sulle loro vite, famiglie e comunità. In linea con l’approccio AG D (Age, Gender and Diversity – Età, Genere e Diversità) e con l’approccio di protezione incentrato sulle comunità (Community based protection - CBP), UNHCR e INTERSOS lavorano con le persone rifugiate e le comunità per rafforzare il loro coinvolgimento ed empowerment, riconoscendo le loro capacità e risorse e costruendo insieme risposte di protezione che mettano al centro le persone e i loro diritti. Il programma – giunto nel 2020 alla sua terza annualità – è interessante anche perché funge indirettamente da monitoraggio sul numero di realtà che, chiedendo di accedere ai finanziamenti, si riconoscono in qualche modo nella definizione di “associazioni di rifugiati”: nelle tre edizioni sono state avanzate ben 270 proposte; di queste 34 sono state complessivamente finanziate: 10 nel 2018 (Generazione Ponte e Mosaico – Piemonte, World in progress e Il grande colibrì – Emilia Romagna, Archivio delle memorie migranti e Laboratorio 53 – Lazio, Arci di Djiguya e Panafrica – Calabria, Niofar e Zabbara – Sicilia), 16 nel 2019  (Lesbiche senza frontiere e Pettirosso – Lombardia, Donne Africa subsahariana e II generazione – Piemonte, Cresci con noi e Next generation Italy – Emilia Romagna, Coop. Siamo e Unire – Lazio, Carovana SMI – Sardegna, Aiims e Berberè – Puglia, Kalifod Ground, Irpinia Altruista e Tobilì – Campania, Arci di Djiguya – Calabria, Africa Unita e Blitz – Sicilia) e 8 nel 2020 (Cambio Passo -Lombardia, Terra e pace – Piemonte, Pro Loco di Camini – Calabria, Amad – Marche, Cygnus – Lazio, Ospiti in arrivo - Friuli-Venezia Giulia, Terra nostra – Puglia, Ikenga - Sicilia) . 
Tra tutte queste realtà, di particolare interesse è l’Unione Nazionale Italiana per Rifugiati ed Esuli (UNIRE). Come si legge dal sito, nasce da un gruppo di rifugiati con lo scopo di diventare la prima rete nazionale dei rifugiati che vivono in Italia e si configura come uno spazio condiviso per costruire e potenziare la rete delle associazioni promosse dai rifugiati e dei singoli attivisti: «UNIRE è la cassa di risonanza delle nostre voci dai territori. L’obiettivo finale è quello di restituire protagonismo, autorappresentazione e auto-narrazione. Vogliamo che tutte le persone come noi, rifugiate, donne e uomini, con diversi profili, paesi d’origine, esperienze e competenze, siano soggetti attivi nella società italiana, inclusi anche nei tavoli di discussione dove vengono prese le decisioni politiche che hanno un impatto diretto o indiretto su di noi, sulle nostre vite» .

2.2 Protagonismo in associazioni miste e/o pro-migranti/rifugiati
Un’altra forma di partecipazione dei rifugiati all’interno di organizzazioni stabili si realizza in contesti misti, quindi con italiani, impegnati comunque sui temi delle migrazioni e dell’asilo. In questi casi i rifugiati si sperimentano (in quanto volontari o anche come operatori e/o mediatori) in contesti già al loro interno interculturali, dove portano il loro contributo e il loro punto di vista culturalmente sensibile e situato, ricco dell’esperienza personale nella procedura di asilo e nell’accoglienza, ma anche di un percorso di radicamento e di specializzazione avvenuto in Italia, a seguito del loro riconoscimento. Come testimonia ancora una volta il già citato rapporto sulle organizzazioni di rifugiati in Italia, in alcuni casi i rifugiati hanno persino contribuito a ridefinire la mission delle organizzazioni di cui sono entrati a far parte, fino ad assumere ruoli di responsabilità all’interno dei direttivi o di altri organi rappresentativi. Interessante notare che in alcuni casi queste organizzazioni riescono a tenere insieme e affrontare – con un approccio che potremo definire intersezionale - questioni tra loro intrecciate ma anche distinte, come è avvenuto per esempio nel caso di Lesbiche Senza Frontiere a Milano  e di Boramosa a Padova  che sono state istituite grazie al supporto di ARCI e nello specifico di ARCIGAY, rete di associazioni culturali a sostegno dei diritti della comunità LBTQI. 
Il protagonismo dei rifugiati all’interno di realtà miste è particolarmente interessante perché permette al contempo di trasformare gli approcci e le metodologie di lavoro delle associazioni che offrono servizi a migranti e rifugiati e di dare l’opportunità agli stessi rifugiati di uscire da possibili “gabbie” che li riconsegnerebbero reiteratamente alla loro identità nazionale e/o all’etichetta burocratica e giuridica di rifugiato. La consapevolezza di questi rischi è particolarmente evidente nel caso dei mediatori linguistici e culturali: come ha evidenziato già tempo fa Vincenza Pellegrino,s e da un lato è fondamentale valorizzare l’esperienza e le competenze di persone con background migratorio, d’altra parte è utile evitare due rischi, tra loro correlati: da un lato, quello di una “deriva culturalista”, per cui solo il migrante/rifugiato con la stessa lingua, lo stesso dialetto, la stessa cultura, lo stesso genere, la stessa esperienza migratoria dell’utente, sarebbe adatto a comprendere-tradurre-mediare con la società di destinazione; d’altro lato, il rischio connesso di un’eccessiva parcellizzazione delle figure professionali a scapito di una loro maturazione e formazione che vada oltre il sapere dell’esperienza diretta, con la conseguenza ulteriore di non permettere una reale trasformazione dei contesti sociali e organizzativi, un cambiamento delle regole del gioco . 
Diverso è immaginare che i rifugiati possano essere operatori qualificati nell’ambito dei servizi presso cui lavorano e diventino parte integrante dell’equipe di lavoro, con un ruolo stabile e definito, che non si limita alla mediazione linguistica e culturale, ma che riguarda gli aspetti sostanziali di un’operatività multidisciplinare, a contatto con l’utenza – italiana e straniera – ma anche con gli altri servizi pubblici e del privato sociale. La presenza fissa e strutturata di persone rifugiate e di origine straniera - ma più in generale potremmo dire, secondo un approccio intersezionale, il più possibile rappresentative delle tante differenze che attraversano le nostre comunità – contribuisce a guardare ai servizi “dal di dentro” con occhi nuovi, portando domande e sfide che non possono essere relegate a sporadici momenti di confronto tra utenza e professionisti. Nell’associazione CIAC di Parma, ad esempio, si è ritenuto prioritario valorizzare la presenza nel proprio organico di dipendenti con background migratorio: molti hanno alle spalle un periodo più o meno lungo di irregolarità e di forte precarietà (giuridica, sociale, sanitaria, lavorativa, abitativa…). Quelli che sono arrivati in Italia da più tempo hanno attualmente (anche) la cittadinanza italiana, quelli giunti più recentemente – durante le primavere arabe – hanno comunque uno status stabile; altri ancora sono seconde generazioni o comunque arrivati nella primissima infanzia attraverso ricongiungimento familiare . Negli anni questa prospettiva si è rivelata particolarmente proficua nel rendere l’associazione flessibile e resiliente, potenzialmente capace - per usare le parole di Weick e Sutcliffe – di “governare l’inatteso”, così come accade per le organizzazioni ad alta affidabilità (HRO, High Reliability Organization),  in cui la consapevolezza collettiva è tale da riuscire a correggere gli errori per tempo e a impegnarsi in un continuo sforzo di innovazione sociale . Cruciale il fatto che abbiano ruoli di visibilità e strategicamente importanti: avere ad esempio un operatore dell’area socio-sanitaria - rifugiato di origine nigeriana - che è anche responsabile del progetto SIPROIMI per vulnerabili, vuol dire offrire la sua competenza e il suo sapere riflessivo – al contempo – ai beneficiari del progetto, ai colleghi suoi pari, ai responsabili dell’organizzazione interna di CIAC, ai referenti dei servizi sociali e sanitari, ai funzionari degli enti locali capofila del progetto SIPROIMI, agli operatori di servizi simili in altri territori con cui si è in rete (per esempio altri SIPROIMI per vulnerabili). 

2.3 Volontariato “per gli altri”
Non si deve tuttavia fare l’errore di credere che i rifugiati si impegnino solamente in associazioni ed enti che hanno come mission principale i diritti di migranti e rifugiati. Benché più difficili da individuare e monitorare, moltissimi sono in realtà gli esempi di rifugiati che si offrono spontaneamente per attività di volontariato all’interno di associazioni attive negli ambiti più diversi. Come è stato osservato anche più in generale per i cittadini italiani, il volontariato rappresenta uno degli ambiti più significativi in cui si formano relazioni fiduciarie, si impara a cooperare per scopi condivisi, si adottano atteggiamenti pro-attivi nei confronti delle diverse esigenze sociali, si sviluppano nuove idee e risposte originali alle sfide dei contesti locali . Recentemente un’importante ricerca promossa da CSVnet – Associazione centri di servizio per il volontariato e coordinata da Maurizio Ambrosini e Deborah Erminio, benché non dedicata in modo specifico ai rifugiati bensì in modo più ampio e generalizzato all’impegno sociale delle persone di origine immigrata, ha ben messo in luce le dimensioni di una partecipazione che troppo a lungo è stata sottovalutata e quasi misconosciuta . Il contributo di questi “volontari inattesi” a tantissime realtà distribuite lungo tutta la penisola è davvero significativo e diversificato: se si volesse tracciare un identikit del volontario di origine immigrata, questi potrebbe essere definito come una persona arrivata in Italia da molto tempo (in media da 15 anni), pienamente inserita nel tessuto sociale e con un buon livello di istruzione. Spesso si tratta di persone che lavorano, in modo più o meno stabile, e che nel loro tempo libero dedicano uno spazio all’impegno civile, non necessariamente spendendosi in attività rivolte ad altri immigrati, ma in un’ottica più a tutto tondo, partecipando attivamente al contesto di cui si sentono parte. Nel complesso dei migranti intercettati dalla ricerca, rifugiati e richiedenti asilo costituiscono una componente non trascurabile, pari a circa l’8%. Se si volesse poi descrivere i principali settori di attività in cui si inseriscono i volontari di origine straniera, troveremmo soprattutto le attività culturali, nei servizi di assistenza sociale e di aiuto nelle emergenze umanitarie, nella cooperazione internazionale e nelle iniziative volte a promuovere lo sviluppo economico e la coesione sociale. 
In ogni caso le precedenti esperienze di contatto interculturale e di partecipazione (più o meno diretta) all’humus sociale in cui proliferano le associazioni di volontariato rappresentano un canale di accesso privilegiato per la partecipazione in prima persona da parte degli stessi migranti: il 17,5% del campione è arrivato al volontariato perché è stato «invitato dai membri dell’associazione/delle persone che non conoscevo prima», il 16,8% è stato «invitato da amici italiani» e, con un’uguale percentuale, un altro 16,8% è stato invitato da «amici connazionali (o di altre nazionalità)». È interessante notare inoltre che, allo stesso modo di quanto avviene per gli italiani, anche il volontariato di migranti e rifugiati può assumere declinazioni e gradi di partecipazione molto diversi: non c’è infatti da stupirsi se il volontariato si modifica al modificarsi della società nel suo complesso. Così, se da un lato sono presenti numerosi casi di attivismo stabile e strutturato, a cadenze fisse, con impegni settimanali o mensili, continuativo nel tempo e con un’adesione forte a un’associazione, d’altro lato sono ricorrenti anche esempi di volontariato «una tantum», a intermittenza, legato a un’iniziativa o a un progetto specifico . È altresì evidente che tutti le esperienze di volontariato per gli altri si traducono anche in ricadute positive in termini di “volontariato per sé”: certamente la maggioranza dei volontari intercettati dalla ricerca legge nell’impegno sociale un’occasione utile e ammirevole per migliorare la vita di altre persone e della società nel suo complesso; quindi si fa volontariato anzitutto per migliorare l’ambiente e dare un contributo alla comunità in cui si vive. Ciò tuttavia non è in contraddizione con l’aspettativa di uscire da eventuali situazioni di solitudine e isolamento sociale: attraverso il volontariato si opera insieme ad altri, si vivono momenti di convivialità, si ampliano le proprie reti amicali. Per le persone di origine immigrata la socialità guadagnata attraverso queste esperienze ha anche una valenza ulteriore: permette di sentirsi accolti e accettati in un gruppo, al di là della propria origine (diversi intervistati hanno sottolineato il fatto di «non sentirsi stranieri all’interno dell’associazione») .

2.4 Impegno diffuso nelle comunità

Quelli riportati finora sono tutti casi in cui i rifugiati si sono impegnati in modo visibile e riconoscibile – se per in contesti tra loro molto differenti. La partecipazione e l’impegno dei rifugiati nelle comunità non si riducono tuttavia a questo. Altrettanto interessante (benché più difficile) è osservare la propensione ad atteggiamenti prosociali e solidali che si manifestano nella quotidianità, e potremmo dire nell’invisibilità, delle relazioni di prossimità. Si scende qui sul piano della spontaneità e della diffusione di micropratiche che sfuggono necessariamente alle statistiche e alle analisi delle politiche, ma che danno importanti indicatori sul grado e le potenzialità della coesione sociale. In questo senso si rivelano molto utili le ricerche che ascoltano le voci dirette dei rifugiati, le loro motivazioni. 
Interrogati sulle attività di prossimità e vicinato, oltre che di sensibilizzazione, portate avanti in un progetto di co-housing con rifugiati e italiani, i protagonisti diretti hanno mostrato una certa resistenza a ricorrere al concetto di “restituzione”: non perché rifiutassero di riconoscere di aver ricevuto qualcosa di importante nel loro percorso di accoglienza e nel progetto stesso, ma perché volevano prendere le distanze dall’idea che il loro impegno andasse ricondotto a una logica quasi aritmetica – “tanto ho ricevuto, tanto dò indietro” – mentre la loro esperienza rimandava di più a un’idea di condivisione, il mettere a disposizione degli altri una buona pratica più che un modo di sdebitarsi, il fare politica attraverso l’esempio positivo invece che una forma di obbligo (implicito o esplicito) . 
Anche in altri casi a contare di più sembra essere una visione circolare piuttosto che lineare delle relazioni e della coesione sociale. A motivare i rifugiati alla partecipazione e all’impegno è la percezione di far parte di un tessuto sociale, di una comunità solidale in cui al contempo si dà e si riceve. La spinta a comportamenti pienamente pro-sociali si connette al superamento della condizione di displacement e all’acquisizione di un nuovo emplacement, una nuova appartenenza . Da questo punto di vista, ancor più che l’accoglienza istituzionale, sembrano essere centrali le esperienze di contatto diretto e significativo con cittadini italiani, con cui si sviluppa un vero legame, una autentica “affezione”: «Perché loro mi hanno dato un’affezione che avevo perso; l’affezione di una mamma, l’affezione di un padre, l’affezione di una sorella e anche di un fratello e l’affezione che mi hanno dato… quando mi hanno detto “guarda che qua non sei straniero!” È una cosa che mi dà più forza e che mi dà sempre la voglia di andare avanti. Loro mi hanno fatto capire tante cose nella vita, mi hanno fatto conoscere tutti i loro amici e per me è la mia famiglia adesso!»  
Nelle parole di questo rifugiato camerunense che ha vissuto un’esperienza di accoglienza in una famiglia italiana, l’affetto – “affezione” – che ha ricevuto ha smantellato il senso di estraneità e stimolato la partecipazione e la proiezione verso il futuro: non sentirsi più straniero vuol dire far parte di una comunità più estesa della famiglia e proprio questa consapevolezza permette finalmente di “guardare avanti”. Quello che si vive all’interno della famiglia è infatti molto importante per stimolare un atteggiamento pro-sociale che esce dai confini delle appartenenze e delle ristrette identità etniche: l’aver ricevuto cura, affetto e fiducia incondizionati da qualcuno che non è un tuo “compaesano”, induce a riprodurre o a impegnarsi ad adottare lo stesso atteggiamento verso terzi, anche sconosciuti. Un altro rifugiato usa le seguenti parole per descrivere questo processo: «Trovi gente che non sono un tuo parente, un tuo compaesano, non hanno la tua mentalità, la tua opinione, però ti vogliono bene, non ti giudicano, cercano sempre di sostenerti. È bello quello, veramente. Spero che un giorno riuscirò… la stessa cosa lo trasmetto pure io, soprattutto per persone che appena arrivano hanno bisogno». 
Quando ci si sente oggetto di fiducia e investimento incondizionato, così come avviene nei veri rapporti significativi, diventa quasi scontato reinvestirsi in un impegno verso il bene comune, riconoscendosi una responsabilità che va al di là del proprio benessere e della propria soddisfazione individuale, interpretando un’accezione di cittadinanza ben più ampia nei confini nazionali, che potremmo definire cosmopolita: «Come immagino il mio futuro in Italia non te lo so dire. Ma se mi chiedi qual è il mio desiderio ora qui, ti risponderò semplicemente che vorrei costruirmi una nuova vita in pace con tutti e farmi una famiglia, contribuire in maniera positiva nella società in cui abito e dimostrare che ogni terra può essere la tua terra quando ti dà amore e tu lo ridai».

3. Nel lungo tempo del Covid: ripensare i legami e la responsabilità sociale
Le riflessioni e gli esempi sopra condivisi, riguardanti i comportamenti e gli atteggiamenti dei rifugiati nei confronti delle proprie comunità di appartenenza e di elezione, possono essere utili anche per analizzare quanto accaduto durante gli ultimi mesi, ovvero durante l’emergenza sanitaria connessa alla pandemia di Covid-19. Certamente le diverse condizioni di accoglienza e di vita in cui si sono trovati a vivere richiedenti asilo e rifugiati hanno comportato conseguenze assai diverse sulle loro esistenze, sui rischi per la loro incolumità (e di chi è entrato in contatto con loro, per lavoro o per altre ragioni) e anche sui vissuti nei confronti del Paese in cui si sono trovati a vivere un’esperienza così pesante come quella di una pandemia e di un protratto lockdown . 
In realtà però si può dire che l’osservazione sul campo da parte di molti attori conferma una disposizione a prodigarsi per gli altri, riconoscendo di far parte di una medesima comunità già interculturale: sembra anzi che tale disposizione si sia moltiplicata durante l’emergenza sanitaria. L’impressione condivisa di molti operatori e operatrici interpellati durante i mesi del lockdown è che i rifugiati – in particolare quando accolti in piccoli centri o appartamenti del sistema di accoglienza diffusa – abbiano agito con grande responsabilità, non solo rispettando i comportamenti imposti dalle autorità per ragioni di salute pubblica, ma dimostrando nella maggior parte dei casi una sincera preoccupazione e partecipazione verso la comunità di cui si sentivano già parte. Per altro si può ipotizzare dalle evidenze emerse dal campo che a promuovere questo spirito di com-partecipazione sia stata la consapevolezza di una maggiore, anche se mai assoluta, parità di condizioni, una simmetria che è derivata da una comune vulnerabilità e dalla paradossale riduzione delle distanze avvenuta durante l’isolamento. 
Gli operatori ad esempio non si sono più mostrati solamente come professionisti da incontrare in ufficio e da cui sembra dipendere l’attivazione di un tirocinio o persino il successo in Commissione, ma si sono a loro volta svelati come individui a 360° con famiglie, bambini, piatti da lavare che si intravvedevano sullo sfondo di una videochiamata, genitori anziani malati o addirittura scomparsi a causa dal Covid. Si sono così moltiplicate a detta di molti le chiamate dei rifugiati non con atteggiamento richiestivo o rivendicativo, ma volte a sincerarsi che andasse tutto bene: “ti chiamo solo per sapere come stai, come state”.
Parallelamente, molti rifugiati si sono fatti avanti chiedendo di rendersi utili per la comunità nel suo complesso. In un periodo in cui si sono impennate le disponibilità anche da parte dei cittadini italiani, i rifugiati – esattamente allo stesso modo e con le stesse motivazioni – si sono voluti mettere a disposizione e si sono prodigati in azioni di solidarietà e supporto: da quelle più classiche e materiali, persino attraverso la raccolta di donazioni economiche, a quelle con un alto contenuto emotivo e relazionale, come la preparazione e la consegna ai familiari degli effetti personali delle vittime del Covid, mostrando – a detta degli organizzatori – una sensibilità e una familiarità al dolore e alle catastrofi che nel drammatico contesto dell’emergenza sanitaria si sono rivelate una preziosa risorsa, da condividere con la comunità allargata. 
Il tempo sospeso della pandemia ha pesato fortemente sui percorsi di inserimento sociale ed economico dei rifugiati, così come la crisi economica ha impattato e continua a farlo sui destini di tanti italiani, ben oltre la fine di un’emergenza sanitaria che a oggi ancora nemmeno intravvediamo. Tuttavia, ha anche aperto uno spazio per un reciproco riconoscimento, basato sull’appartenenza alla medesima “comunità di destino”. Nella primavera del 2020, durante il lockdown e le fasi più dure del Covid, le forme di generosità e di solidarietà autorganizzata, le iniziative informali, spontanee e dal basso, hanno avuto un peso e un ruolo cruciale per affrontare l’impatto della pandemia e del blocco economico . Ciò è avvenuto in molti contesti locali in Italia, come in altri Paesi, dal Medio Oriente al sud ed est Asia, all’Africa del Sud, all’Europa, al Nord America e al Sud America. Esperienze nate nello spirito del muto appoggio e della solidarietà dal basso, spesso sfidando la diffidenza e talvolta l’aperta ostilità delle autorità. Come ha scritto Marina Sitrin nel volume Pandemic Solidarity, queste storie e queste esperienze «manifestano il tipo di società che potremmo avere e, di fatto, già abbiamo. […] Questa pandemia sta creando piccole e grandi fessure, cosa fare con queste aperture dipende da noi» . Allo stesso modo in Italia si è reso evidente che la partecipazione dei rifugiati alla vita sociale e pubblica delle comunità in cui vivono non è solo possibile, ma esiste già, a condizione di lasciare lo spazio e la libertà affinché la soggettività di questi nuovi cittadini possa esprimersi a pieno. Nel riconoscimento reciproco della vulnerabilità che ci accomuna e nella consapevolezza che le relazioni ci salvano, tutti insieme: poco importa se agite a distanza o nella prossimità di un contatto ravvicinato.

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