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«Torturatori di Stato». Il giudice: Libia, abusi nelle prigioni ufficiali

Cronaca

Erano stati condannati a 20 anni di carcere ciascuno i tre nordafricani accusati di essere dei feroci torturatori in un campo di prigionia governativo a Zawyah, in Libia. Ma la lettura delle motivazioni della sentenza di primo grado suonano ora come un atto d’accusa alle autorità di Tripoli e ai Paesi che le sostengono.

Perfino i legali dei tre imputati, nel tentativo di sottrarli alla giurisdizione italiana, non hanno negato gli abusi commessi: «L’agire dei carcerieri non sarebbe riconducibile a logiche criminali, bensì rientrerebbe nella “politica” di gestione dei migranti praticata dal governo libico attraverso l’istituzione di “centri di detenzione” per i clandestini». E il «pagamento di somme di denaro non rappresenterebbe un riscatto, ma una sorta di 'cauzione”». Tesi che il giudice ha respinto emettendo un duro verdetto di condanna: 20 anni di detenzione.

Il campo di prigionia di Zawyah è uno dei centri sotto il controllo diretto del governo, che lo ha affidato alla milizia al Nasr, una banda armata comandata dai fratelli Kachlav che avevano posto a capo della guardia costiera e del porto petrolifero il comandante Bija, arrestato a Tripoli una settimana fa. Il “direttore” del centro è Ossama, cugino di Bija, mentre i Kachlav controllano personalmente a Zawyah, sempre su concessione del governo, la più grande raffineria in attività di tutta la Libia.

Per il magistrato non ci sono dubbi. Il sistema politico-criminale di Zawyah è una macchina fatta di ingranaggi mafiosi legata direttamente al potere ufficiale di Tripoli e ai suoi finanziatori internazionali. I migranti sono l’asset politico più importante. Un’arma negoziale con cui ricattare l’Europa e tenere a bada le milizie avversarie, secondo modalità «volte alla individuazione e alla cattura, per il tramite di soggetti complici, spesso appartenenti alle milizie locali corrotte, di individui – si legge nella sentenza – provenienti da diverse regioni del continente africano che, versando in situazioni di assoluta miseria, confluiscono in Libia nella speranza di raggiungere via mare il continente europeo».

La dieta del prigioniero da sola rappresenta uno strumento di vessazione: pane secco e zuppa, solo alla sera. Ma è la parte migliore della giornata. Le violenze non sono mai frutto di impeto. La serie di sevizie segue un preciso manuale. Se occorre, fino alla morte. All’arrivo nel campo di prigionia i migranti vengono separati secondo un rigido criterio che divide gli uomini dalle donne e dai bambini, separando così coppie e famiglie. A questo punto i maschi vengono smistati in base alla nazionalità, per evitare che possano esplodere conflitti interetnici. L’acqua con cui vengono dissetati non è potabile. Circostanza confermata ad Avvenire anche da un episodio recente. La missione Onu in Libia aveva donato sistemi di potabilizzazione proprio alla prigione di Zawyah. Pochi giorni dopo, alcuni subsahariani hanno tentato di strappare ai torturatori un ragazzo e alcune donne. Per tutta risposta Ossama, dopo avere fatto punite i “ribelli”, ha incendiato sotto gli occhi di tutti i potabilizzatori, addebitandone poi la responsabilità ai migranti.

La polizia di Agrigento aveva interrogato separatamente i migranti transitati da Zawyah e salvati nel luglio 2019 dalla barca a vela Alex, della piattaforma italiana “Mediterranea”. Al termine delle deposizioni quasi tutti aggiungevano un dettaglio. A decidere chi imbarcare sui gommoni era «un uomo libico, forse di nome “Bingi” (fonetico), al quale mancavano due falangi della mano destra». Secondo un altro migrante l’uomo era soprannominato “Bengi”, e «si occupava di trasferire i migranti sulla spiaggia; era lui, che alla fine, decideva chi doveva imbarcarsi; egli era uno violento ed era armato; tutti avevamo timore di lui». A chi chiedeva se qualche volta avessero sentito il suo vero nome, un migrante rispose con sicurezza: «Lo chiamavano Abdou Rahman». Gli inquirenti non hanno dubbi: si tratta proprio di Abdurahman al Milad, quel Bija (arrestato un paio di settimane fa a Tripoli) venuto nel 2017 in Italia e che si è rivelato decisivo nel rallentare le partenze dalla Libia.I legali hanno annunciato ricorso, e almeno in un caso sarà battaglia legale per accertare l’identità di uno degli imputati. Vi sarebbero infatti incongruenze nella fase di riconoscimento che verranno riesaminate in Appello.

In discussione non viene però messa l’intera ricostruzione del sistema di cattura e sfruttamento di migranti, profighi e richiedenti asilo. Le autorità locali di Zawyah, come rivelato da Avvenire, sono state destinatarie di svariati milioni di euro donati dal governo italiano nel 2017. In quell’anno Bija era aveva ottenuto dalla Farnesina un visto d’ingresso per l’Italia, per participare a d una serie di incontri istituzionali nel mese di maggio. Poche settimane dopo si registrerà il più massiccio crollo di partenze di migranti. Poche settimane dopo l’Italia stanziava 1,8 milioni di euro in favore della municipalità di Zawyah.

 

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