Boochani: "Gli abusi sui migranti sono un rischio per la democrazia" - VIDEO
rassegna stampa
Behrouz Boochani, scrittore, giornalista e regista curdo iraniano, è stato a Parma nei giorni scorsi per un incontro al Palazzo del Governatore per una conversazione con Chiara Marchetti e Hisam Allawi di Ciac Onlus. Condividiamo l'ottimo articolo di Annalisa Camilli su Internazionale, che racconta bene la sua vicenda umana ma anche letteraria.
Inoltre inseriamo qui sotto il video integrale dell'incontro che ha tenuto a Parma.
Ora vive a Wellington, in Nuova Zelanda: gli è servito un po’ di tempo per tornare a una quotidianità simile a quella della maggior parte delle persone. Dopo sei anni passati in un centro di detenzione australiano per stranieri sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, gli occhi e la mente di Behrouz Boochani non erano più gli stessi.
“La percezione del tempo, per esempio, è stata un problema: quando sono uscito dal centro di detenzione mi sembrava che fuori andasse tutto troppo veloce. E ci è voluto un po’ per allinearmi al tempo degli altri”, racconta con un filo di voce prima di affrontare l’ultima presentazione italiana del suo libro Nessun amico se non le montagne (Add editore 2019), in cui ha raccontato la sua esperienza e ha denunciato la disumanità delle politiche migratorie australiane, che tuttavia stanno diventando un modello anche per altri sistemi.
Behrouz Boochani, un curdo iraniano, è minuto, capelli lunghi, occhi chiarissimi: “Ho una vita tranquilla adesso, normale. Sono passati quattro anni da quando sono uscito. Ho addirittura chiesto il visto in Australia e me lo hanno concesso, così ho fatto un viaggio nel paese”.
Non era andata così la prima volta che aveva provato a raggiungere l’Australia via mare, per sfuggire alle persecuzioni politiche nel suo paese. Il 17 luglio 2013, pochi giorni prima dell’arrivo di Boochani in territorio australiano (il 23 luglio), era entrato in vigore un accordo (ilRegional resettlement agreement) tra Australia e Papua Nuova Guinea, in base al quale i richiedenti asilo che entravano in Australia in maniera irregolare erano deportati a tempo indeterminato in strutture dell’arcipelago, come il centro di detenzione sull’isola di Manus.
Altri centri simili si trovano a Christmas island (Australia) e sull’isola di Nauru (di fatto un protettorato australiano). In Australia vige la cosiddettaPacific solution: tutti coloro (senza distinzione tra adulti e bambini) che tentano di entrare nel paese senza un visto regolare sono respinti o deportati in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato.
“La marina australiana ci ha intercettati mentre eravamo a bordo di un’imbarcazione e ci ha arrestato: era appena entrato in vigore quell’accordo ma noi neppure lo sapevamo perché eravamo in mare da una settimana. È stato scioccante. Ci hanno messo su un aereo, ci hanno dato del pane ma ci siamo tutti addormentati, per svegliarci che eravamo già sull’isola”, racconta il 26 maggio a Roma. “Tante persone, centinaia, in un posto così piccolo: è stato devastante accettare che eravamo confinati su quell’isola”, racconta. Aveva portato pochissime cose con sé quando era partito da casa, “un libro di poesie, qualche vestito”. Ma quando è arrivato in Australia non aveva “nemmeno le scarpe”. È stato deportato e rinchiuso sull’isola di Manus.
Boochani è un giornalista (per questo è scappato dall’Iran) e così per sopravvivere ha trasformato la sua esperienza di confinamento, detenzione ed esilio in una testimonianza lunga e documentata della sua condizione e di quella dei suoi compagni.
Ha ottenuto un telefono scambiandolo con una guardia carceraria in cambio di sigarette e ha cominciato a documentare la situazione all’interno del centro di detenzione sui social network e scambiando messaggi con una rete di giornalisti internazionali che dall’esterno ha sostenuto il suo lavoro, traducendolo e pubblicandolo. Per questa sua incessante attività d’informazione, nel 2018 ha ricevuto il premio Anna Politkovskaja per la libertà di stampa assegnato dal festival diInternazionale a Ferrara.Il premio è stato ritirato da Omid Tofighian, il traduttore del suo libro in inglese.
“Per due anni ho comunicato con l’esterno, cercando di costruire una rete di protezione fuori dal centro”, racconta. Gli hanno sequestrato il telefono molte volte, ma è sempre riuscito a farsene arrivare un altro. “Poi ho cominciato a pubblicare pezzi sui giornali per denunciare la situazione nel campo. Il libro è la tappa finale di questo percorso”.
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